ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

31 agosto, 2017

La Scala riapre anticipando Natale


Solitamente proposta come fiaba natalizia per i piccoli, Hänsel und Gretel viene invece programmata ancora in (piena) estate alla ripresa scaligera dopo la pausa agostana. Si tratta di una produzione del Progetto Accademia della Scala, che prevede 8 recite, a partire da sabato 2 settembre.

L’opera, che ebbe sin dalla sua prima (1893) un enorme successo in Germania, è stata invece accolta con il contagocce (anche se sempre con buon gradimento) all’estero: a Milano debuttò il 6 aprile 1897 (in traduzione italiana); Toscanini la diresse alla Scala nel 1902, poi nel 1903 a Buenos Aires; l’ultima apparizione al Piermarini risale a 58 anni fa: Antonino Votto sul podio e un cast di prima grandezza, che includeva Renata Scotto, Fiorenza Cossotto e Rolando Panerai. L’unica altra presenza scaligera nel dopoguerra è del 1952 (sempre in italiano, diretta da Argeo Quadri):


La direzione e concertazione sono affidati ad un solido direttore di tradizione teutonica, Marc Albrecht, apprezzato qui già nel 2012, quando arrivò in emergenza a dirigere la straussiana Fr-o-Sch, mentre l’allestimento è del salisburghese Sven-Eric Bechtolf

Il sito del Teatro riporta una durata (senza intervalli, ovviamente) di 90 minuti, che è nettamente inferiore a quella di un’edizione completa (ad esempio questa di Solti, tuttora una delle esecuzioni di riferimento) che ne conta 105-110: ciò lascia pensare a tagli non proprio marginali apportati alla partitura... staremo a sentire.

Per un sommario inquadramento dell’opera, mi permetto di rimandare chi legge ad alcune mie note di presentazione, pubblicate un paio d’anni fa in occasione delle pregevoli rappresentazioni del Regio torinese

23 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Stabat Mater


È ormai tradizione per il ROF chiudere i battenti con un concerto – diffuso su schermo gigante in Piazza del Popolo - in cui si eseguono musiche non-operistiche del maestro oppure si propongono opere in forma di concerto (capitò in anni recenti con Zedda che presentò Barbiere, Tancredi e Donna). Le due composizioni del primo tipo che si spartiscono la torta sono solitamente la Petite Messe Solennelle (che infatti chiuderà il prossimo Festival, nella versione strumentata) e lo Stabat Mater, che ieri sera è tornato sulla scena dopo le due ultime apparizioni guidate da Michele Mariotti (2010 e 2015) con i suoi bolognesi.

Quest’anno è toccato alla OSN-RAI, al Coro Ventidio Basso e a Daniele Rustioni il privilegio di abbassare il sipario del Festival, coadiuvati da quattro voci che il pubblico pesarese conosce ormai benissimo: Salome Jicia e Dmitri Korchak che sono ormai di casa qui (Korchak già cantò lo Stabat nel 2006), Erwin Schrott (che esordì lo scorso anno nel Turco) e la rediviva dal secolo scorso Enkelejda Shkoza (fu Ernestina nientemeno che nel 1996, Marie nel ’97, Emilia nel ‘98 e Melibea nel ‘99).  
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La gestazione dello Stabat durò 9 mesi anni, quanti ne passarono fra una prima stesura frettolosa (1832, a fronte dell’impegno che Rossini aveva preso con Manuel Fernandéz Varela, un agiato prelato - tipo cardinal Bertone, per intenderci - di Madrid) e quella definitiva. Fretta che obbligò Rossini ad... appaltare per buona parte a terzi (nella fattispecie l’amico di studi Giovanni Tadolini da Bologna) la composizione della versione iniziale dell’opera, prima di stenderne (tutta di suo pugno) quella definitiva del 1841.

Una relazione assai dettagliata e documentata di quegli anni della vita di Rossini che videro la composizione dello Stabat si può leggere sul programma di sala del ROF, ed è a firma di Reto Müller (membro del Comitato Scientifico della Fondazione Rossini) il quale, oltre a fare chiarezza su molti approssimativi luoghi comuni riguardo all’opera, presenta anche una tabella comparativa delle due versioni, che mi sono permesso di sintetizzare qui sotto. L’originale rossiniano prevede una distribuzione del quartetto dei solisti abbastanza insolita: due soprani, tenore e basso; stante però la tessitura non impervia del secondo soprano (tocca al massimo il SOL#) è diventata ormai consuetudine affidare la relativa parte ad un contralto/mezzosoprano (cosa che è puntualmente avvenuta anche ieri sera) ristabilendo quindi il tradizionale quartetto SATB:


Come si può notare, Rossini compose originariamente l’introduzione e tutta la seconda parte dello Stabat (dalla strofa 11, parte che rimarrà inalterata) appaltando a Tadolini la prima parte; poi però – ritornatigli tempo e voglia - cassò tutti i numeri composti dall’amico per sostituirli, ristrutturandoli profondamente, con farina del suo sacco.

L’ultima strofa di Jacopone (Quando corpus morietur) è originariamente affidata al solo quartetto solistico (a cappella). Qui a Pesaro tuttavia è ormai invalsa l’usanza – confermata ieri sera - di affidarla al Coro, scelta arbitraria anche se non certo riprovevole, ma che non dà modo ai quattro solisti di sciorinare le loro qualità (e di accommiatarsi prima del finale) in questo brano assai impegnativo e di alta drammaticità. È un po’ come far suonare un quartetto ad un’intera orchestra d’archi... privata delle prime parti: è vero che alcuni famosi quartetti sono stati strumentati per ampio organico, ma si tratta di esercizi di studio. Personalmente trovo assai preferibile la soluzione originaria di Rossini.

In ogni modo l’esecuzione complessiva è stata di livello più che dignitoso: punte di diamante, fra i solisti, le due voci maschili, un Korchak impeccabile (per il quale alcuni spettatori hanno abbozzato un applauso a scena aperta – tanto meritato quanto inopportuno - dopo il Cuius animam, chiuso da uno squillante e stentoreo REb acuto) e poi il papà del primogenito della Netrebko, che ha sciorinato la sua voce scura e potente, in particolare nel Pro peccatis. Le due voci femminili (per me) un filino al di sotto: la Jicia deve meglio saper controllare le sue esuberanti doti naturali, che la portano a forzare gli acuti, che tendono a uscire stimbrati; la rediviva Shkoza ha esibito voce potente e scura, ma (mi) è parsa non perfettamente fluida, soprattutto nella sua cavatina.

Bene ancora il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, distintosi nelle parti più religiosamente sommesse (come l’attacco del citato Quando corpus) sia in quelle (vedi il Finale) dove l’impegno anche fisico diventa proibitivo.

Sui suoi notevoli standard la OSN-RAI, dalla quale Daniele Rustioni ha saputo cavare sonorità vuoi delicate e struggenti, vuoi poderose e spettacolari.

Alla fine trionfo per tutti, con ripetute chiamate, in un Teatro Rossini (con pochissime poltrone vuote) che ha così salutato in bellezza la chiusura di questo ROF-38.
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La serata era però stata aperta dall’esecuzione del Preludio Religioso dalla Petite Messe Solennelle, orchestrato anni fa dal compianto Alberto Zedda, esecuzione preceduta da un indirizzo del Sovrintendente Mariotti che ha ricordato con evidente commozione la figura del Maestro che tanto ha dato per il ROF, e ha anche spiegato i razionali che portarono Zedda a decidere di orchestrare quel brano che Rossini aveva affidato al solo organo. È stato insieme un omaggio all’indimenticabile Direttore Artistico e un arrivederci al 2018, quando proprio la Piccola messa tornerà per porre il sigillo all’edizione numero 39 del Festival.

21 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. La pietra del paragone


Ritorno sotto le enormi valve dell’Adriatic Arena (parecchie anche ieri le poltroncine vuote, peraltro) per l’ultima recita de La pietra del paragone, la settima opera che portò al ventenne Rossini il successo e la notorietà sulla piazza milanese. In quel 1812 la Scala aveva in cartellone due opere che avevano avuto un discreto, se non grande, successo: il Ser Marcantonio del Pavesi e Le bestie in uomini del Mosca, che non erano proprio da buttar via, almeno a giudicare da qualche frammento recuperabile anche in rete (la Sinfonia del Pavesi e una scena-e-aria con corno obbligato del Mosca) che sembrano anzi dei modelli di riferimento per il Gioachino. Eppure la Pietra eclissò totalmente le due concorrenti: e il pubblico milanese in quell’autunno non volle più ascoltare altro che Rossini!

Su un libretto di Luigi Romanelli, assai raffinato nella forma quanto inverosimile nel contenuto (basti pensare ai due speculari travestimenti di Asdrubale e Clarice) Rossini compose quasi tre ore di musica che scorre via senza cadute di tensione o rilassamenti, una vera e propria abbuffata di numeri: cavatine, arie, duetti, terzetti, quartetti, quintetti, cori, un temporale e ovviamente i due concertati finali. Non mancano anche qui gli auto-imprestiti (in e out): dall’Equivoco stravagante (sua terza opera, che aveva fatto fiasco a Bologna) arrivano – rielaborati dal compositore - tre numeri della Pietra (coro di cacciatori, quintetto e aria di Clarice-Lucindo); la Sinfonia venne invece presa di peso e trasportata al Tancredi veneziano, il terzetto del duello andrà nella Gazzetta, il Temporale nell’Occasione e successivamente nel Barbiere. A testimonianza della disinvoltura (ma anche dell’acume e dell’intelligenza) che Rossini impiegava nel disporre della sua propria musica.

Compagnia di canto giovane, con parecchi ex-accademici che hanno mostrato le loro promettenti qualità, già emerse alla prima e all’ascolto radiofonico. Ma i mattatori della serata sono stati i due buffi: Paolo Bordogna che ha confermato (come Pacubio) la sua gran classe e ha strappato applausi, non solo con la bizzarra e parodistica Missipipì; con lui un ottimo Macrobio di Davide Luciano, autore di una prova maiuscola, per spiegamento dei suoi potenti mezzi naturali, oltre che per caratterizzazione del personaggio.

Maxim Mironov e Aya Wakizono (tenore e contralto, coppia di potenziali amanti certo meglio assortita – musicalmente – di quella Asdrubale-Clarice che invece godrà del lieto-fine) mi son parsi degni di apprezzamento: lui, ormai alla terza presenza al ROF (dopo 2006 e 2015) non è più da scoprire ed anzi pare fare progressi col passar degli anni, così ha sciorinato una splendida aria nel second’atto. Lei è alla prima presenza nel cartellone principale (fece da accademica il Viaggio nel 2014, prima di passare ad un’altra accademia, quella scaligera) e ha mostrato voce ben impostata e accenti adeguati al ruolo. Ad entrambi si può peraltro imputare la mancanza di qualche decibel, che ha un filino penalizzato le loro prestazioni.
   
A Gianluca Margheri era affidato il ruolo (Asdrubale) di grande impegno e difficoltà: che il nostro ha cercato di superare non senza qualche affanno, in specie nei virtuosismi cui Rossini chiama il protagonista, tuttavia mi sentirei di dargli un voto nettamente positivo.

Detto che William Corrò è stato un onesto Fabrizio, restano le due pettegole arriviste della compagnia: come già alla prima radiofonica, Marina Monzó e Aurora Faggioli non mi hanno particolarmente impressionato: comunque un filino meglio la prima, discreta nella sua arietta e meno... vetrosa e urlacchiante della seconda.

Il Coro (maschile, ieri) del Ventidio Basso di Giovanni Farina, impegnato in misura corposa, ha ancora sfoggiato affiatamento, precisione di attacchi e belle sonorità.

Per l’OSN-RAI non si possono ripetere che elogi ed apprezzamenti: con una partitura che non a caso viene definita tedesca (per la strumentazione lussureggiante, scritta per un’orchestra – quella della Scala del 1812 - agguerrita come le compagini del Nordeuropa) i nostri radiofonici vanno evidentemente a nozze. Daniele Rustioni li ha guidati con perizia e rigore: Orchestra e Direttore torneranno martedi a chiudere (in bellezza, c’è da esserne certi) questo ROF-38 con lo Stabat Mater.
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Pier Luigi Pizzi ha ripreso, con parecchi aggiornamenti, il suo simpatico allestimento che tre lustri non hanno per nulla invecchiato, anzi! La storiella improbabile di Romanelli si può perfettamente ambientare in spazio e tempo qualsivoglia, rappresentando a suo modo un archetipo di certa società benpensante e di ceti parassitari presenti sotto ogni latitudine e in ogni epoca.

Quello di quest’anno si ricorderà come il ROF-delle-passerelle: dopo Padrissa e Martone, anche Pizzi ne ha fatto uso (peraltro in modica quantità) come appendice alla sua scenografia riproducente un villino con piscina, ispirato al regista proprio da una sua casa al mare. Regista che si è presentato baldanzosamente sul palco a raccogliere applausi e ovazioni, meritati per lo spettacolo e insieme per la sua interminabile carriera.

Alla fine trionfo per tutti, con passerella generale accompagnata da Richard Barker al fortepiano.

19 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Torvaldo e Dorliska


Terza recita anche per Torvaldo&Dorliska, ieri sera al Rossini, in un ambiente che anche logisticamente ti trasporta indietro di secoli, proprio ai giorni in cui la musica che si suona e si canta venne ideata e composta dal grande Gioachino. Bomboniera gremita e pubblico cosmopolita ben disposto al gradimento e all’applauso.

Opera che meriterebbe di essere riproposta più spesso, anche da altri teatri, stante il livello dei contenuti musicali: è un Rossini ancora giovane (1815) ma già alla sua 16ma fatica; è al suo esordio sulla piazza di Roma, dove poco dopo otterrà (a valle dell’iniziale fiasco) il successo destinato a divenire imperituro del Barbiere. E forse proprio la fama del Figaro ha finito per oscurare, immeritatamente, quella della sorella maggiore, che invece presenta struttura (arie, duetti, terzetti e concertati) e ispirazione davvero degni del miglior Rossini.

Il quale anche qui non si smentisce, quanto ad auto-imprestiti; ne segnalo almeno un paio: il primo è in uscita, il tema in LA maggiore (poi in RE) della Sinfonia che nei due anni successivi a quel 1815 migrerà dapprima nella Gazzetta e da lì nella Cenerentola. L’altro, in entrata (in FA maggiore, ad accompagnare Giorgio e il coro in apertura dell’atto II) viene immediatamente dal Sigismondo (1814) ma remotamente (1812) dall’introduzione della Scala di seta...

Sono le tre voci gravi del cast a innervare l’opera, fin dalle prime due scene, in cui spicca quell’impareggiabile terzetto con coro (si cercherà, si troverà) che anticipa proprio la cavatina di Figaro (Figaro qua, Figaro là) ma qui raggiunge vette esilaranti proprio per il continuo passare da una voce all’altra. E i tre interpreti sono anche stati i maggiori trionfatori della serata. Nicola Alaimo, la cui presenza scenica ha fatto da degno supporto ad una prestazione canora impeccabile; poi Carlo Lepore, presentatosi con il braccio sinistro al collo (una costante di questo ROF, dopo quello di Abbado...) che ha sfoderato tutta la sua proverbiale verve di autentico buffo rossiniano. Ma bene si è portato anche Filippo Fontana, che si è inoltre esibito come scalatore di alberi nella sua strampalata aria (sopra quell’albero vedo un bel pero) a metà del primo atto.

Dmitri Korchak ha confermato in pieno le sue doti che in pochi anni lo hanno portato ad emergere non solo nel repertorio rossiniano (ma presto vestirà i panni e soprattutto... la voce di Arnold): svettante negli acuti, sempre squillanti e capaci di penetrare anche i fracassi degli insiemi, ma assai efficace anche nei momenti più lirici e intimistici, dove sa sfoderare apprezzabili mezze voci.

Salome Jicia è certamente cresciuta, dopo la debuttante Elena dello scorso anno. Ma ancora mi pare debba lavorare sodo per raggiungere livelli di eccellenza: gli acuti sono spesso forzati e urlacchiati con timbro sgradevole (complice anche la regìa che la costringe a volte a cantare supina... posizione non ideale davvero); comunque una più che passabile Dorliska.

Raffaella Lupinacci ha pure lei mostrato qualche vetrosità nella tessitura acuta, comunque all’interno di una prestazione mediamente onorevole.

Altrettanto va detto del Coro della Fortuna di Mirca Rosciani, che ha anche dovuto affrontare difficoltà, come dire, logistiche, impostegli dall’eccentricità delle soluzioni registiche.

Francesco Lanzillotta si conferma più che una promessa: la sua è una direzione e concertazione precisa, attenta e rispettosa delle voci; e l’Orchestra Sinfonica G.Rossini ha dimostrato come anche piccole compagini di provincia sino perfettamente all’altezza di eseguire adeguatamente opere come questa. Gianni Fabbrini e Anselmo Pelliccioni hanno egregiamente sostenuto il ruolo del continuo (fortepiano e cello) nei recitativi, il primo ha pure vestito estemporaneamente i panni di comparsa...

Alla fine applausi, ripetute chiamate singole e collettive e ovazioni per tutti. Meritate, direi proprio.
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La regìa di Mario Martone era già sicuramente vecchia, come concezione, 11 anni fa, ed oggi è proprio irrimediabilmente passata. L’idea di ignorare il palcoscenico per portare l’opera in platea potrà piacere agli amanti dell’avanspettacolo, ma va decisamente a detrimento innanzitutto della precisione dell’esecuzione (un coro sparso per l’intera platea difficilmente sarà perfetto negli attacchi, col Direttore che gli volta le spalle...) e poi anche dell’ottimale fruizione da parte del pubblico un filino più... esigente.

Così, avendo sprecato l’intera scena per collocarvi il bosco (cui nel libretto semplicemente si accenna) ecco che al regista sarebbe rimasto solo il proscenio per ambientarvi l’intera vicenda: pretesto quindi per dislocare in sala passerelle, scale retrattili che scendono dai palchi del primo ordine, una gabbia che sale e scende proprio alle spalle del Direttore a far da cella per il povero Korchak, altre scale che portano nella buca dell’orchestra... insomma, un armamentario francamente bizzarro e soprattutto penalizzante per la concentrazione di interpreti e di pubblico. Ciliegina sulla torta, i volantini rossi con la scritta Viva Rossini fatti piovere dal loggione all’inizio del second’atto, in corrispondenza con il patriottico ingresso dei popolani di Ordow.   

Insomma, un allestimento fra il goliardico e il varieté, che peraltro in molti avranno anche apprezzato.       

17 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Le Siège de Corinthe


Ieri sera Le Siège de Corinthe è arrivato alla terza delle quattro recite in programma, in un’Adriatic Arena per la verità non proprio piena come un uovo...

Della serie: come rovinare una delle opere migliori del genio pesarese. E l’artefice dell’impresa impossibile risponde al nome di Carlus Padrissa, che ha fatto esattamente il contrario di ciò che Rossini ha genialmente costruito: distruggere tutta la poesia e la sontuosità dell’opera, per presentarci un’accozzaglia di trovate una più becera dell’altra.

A partire dal Konzept di fondo, che trasporta la ricca e colta Corinto in un imprecisato quanto arido deserto, dove due branchi di animali assetati si contendono l’acqua (di centinaia di bottiglioni da dispenser di ufficio stipati a far da permanente scenografia.

Sullo sfondo, già dall’esecuzione della sinfonia, versi di Byron che con il soggetto rossiniano (e soprattutto con la musica!) c’entrano come i cavoli a merenda. A proposito di Byron, il colmo della proditoria aggressione all’arte di Rossini viene perpetrato nel second’atto, allorquando la splendida musica di danza (fra l’altro arricchita di una quarta scena recuperata fra le carte parigine) che deve supportare nientemeno che una grande festa nuziale, viene addirittura stuprata da ciò che si vede in scena, sullo sfondo di altri macabri sproloqui del Lord albionico: dapprima Mahomet e Pamira vittime di incubi notturni, poi scaramucce fra hooligan greci e turchi, sfociate in un generale parapiglia, sempre per il possesso di qualche bidone d’acqua. Insomma: uno scempio, che il pubblico ha giustamente riprovato con sonori buh, certo non indirizzati in quel momento all’orchestra e al povero Roberto Abbado, che avevan fatto del loro meglio per portare quella splendida musica alle nostre orecchie.

Costumi di foggia, colori e disegni stravaganti (due capitelli dorici a far da... reggipetto ad una femmina e un maschio durante la ballade di Ismène faranno epoca!) che rivestivano le masse greche e turche come costumi da bagno, con tanto di cuffia nera in testa; per il resto: turchi sul rosso e greci sul grigiazzurro. Luci impiegate in modo piuttosto elementare: colori pacchiani e abuso di effetti velleitari.   

E poi: pannelli mobili, recanti scritte e immagini che vorrebbero ricordarci gli orrori di tutte le guerre, che scendono e salgono sulla scena, ma vengono anche portati in processione attraverso la platea. E a proposito non parliamo di questa ormai trita-ritrita-frullata-e-rifrullata (quanto idiota) abitudine dei registi da strapazzo di spostare l’azione dal palcoscenico alla platea: qui si son visti cortei, passerelle (una proprio disposta davanti all’orchestra, tipica dei più stolti avanspettacoli) e scene di canto peripatetico, con invito (in occasione della marcetta dei greci, nemmeno fossimo a Vienna al suono della Radetzky) a partecipare all’happening per spettatori fatti alzare dalle loro sedie e spediti a rinforzare la folla di hooligan... mamma mia!
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Dimentichiamo questi obbrobri e passiamo alla musica e al canto, che per fortuna hanno almeno in parte riscattato la volgarità della messinscena. Roberto Abbado si è ancora presentato (come già avevamo saputo alla prima) con un tutore (in realtà una specie di custodia per ottavini messa a tracolla per impedire al braccio destro di accostarsi al fianco) e senza bacchetta: ciò non gli ha impedito di guidare da par suo la OSN-RAI che non ha bisogno di presentazioni, quanto a qualità di suono e compattezza in tutte le sezioni. Un’esecuzione più che apprezzabile: per equilibrio (evitati facili fracassi e mai coperte le voci) e appropriatezza di accenti e sfumature.

Da lodare anche il Coro del Ventidio Basso, preparato egregiamente da Giovanni Farina, che si è così pienamente meritato la fiducia accordatagli dal ROF, dopo la defezione dei bolognesi.

Mediamente più che accettabile il fronte canoro; in particolare mi ha impressionato Sergey Romanovsky, un Nèoclés sicuro e squillante, che ha degnamente coronato la sua prestazione con un’apprezzabile Grand Dieu in apertura del terz’atto. Nino Machaidze l’ho trovata piacevolmente migliorata rispetto a prestazioni del passato: evidentemente lo studio deve averle giovato, in particolare nel rendere più morbidi e meno vetrosi gli acuti, così ne è uscita una Pamira davvero convincente.

Il Mahomet di Luca Pisaroni mi aveva invece convinto di più all’ascolto radio di giovedi scorso: da vivo la sua voce è meno penetrante e talvolta anche l’intonazione non mi è parsa bene a fuoco. Comunque si merita per me un’ampia sufficienza.

John Irvin è un onesto Cléomène, che personalmente affiderei ad una voce più... robusta, viceversa – all’ascolto - pare che lui sia il giovane eroe e non il maturo padre di Pamira. Discreto anche Carlo Cigni nei panni del vegliardo Hiéros: tanto più che il regista lo ha fatto cantare quasi sempre in modalità... peripatetica, il che non credo giovi ad un’emissione ottimale dei suoni.

Cecilia Molinari ha fatto onorevolmente la sua parte di Ismène, culminata nella ballade del second’atto. A proposito, questo è uno dei tanti punti controversi del testo rossiniano, quanto a dislocazione temporale: qui si è seguita la partitura originale per orchestra, dove Ismène arriva dopo il duetto Mahomet-Pamira; in altre produzioni (55’12”) si segue invece lo spartito canto-pianoforte, dove Ismène apre l’atto, prima della grande scena ed aria di Pamira e del successivo duetto.

Efficace l’Omar di Jurii Samoilov, onesto l’Adraste di Xabier Anduaga: si tratta di due... prodotti dell’Accademia rossiniana, messisi in luce negli anni scorsi con il training standard del Viaggio.

Bene, alla fine grandi applausi per tutti (veramente il regista mi pare non si sia presentato...) e un’isolatissima contestazione per Abbado. Per me, ad occhi chiusi (!) una piacevole serata. 

11 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Le prime alla radio


La nuova produzione de Le Siège de Corinthe ha aperto a Pesaro il Festival rossiniano n°38. Per gli ascoltatori via etere hanno fatto gli onori di casa Guido Barbieri (da studio) e Oreste Bossini (in loco). Qualche discorso di circostanza (le doverose commemorazioni di Zedda e Gossett) poi la ormai ripetitiva auto-celebrazione di patron Mariotti-sr (il ROF come fucina di talenti canori e di innovative invenzioni registiche) e qualche sensata considerazione di Roberto Abbado sulla musica del Siège. Anche Carlus Padrissa ha avuto modo di spiegare ciò che nessuno aveva capito (!) della sua regìa, che dalle sue parole sembrerebbe piuttosto estranea allo spirito e all’estetica rossiniani... ma sarà meglio giudicare con l’approccio di SanTommaso.

Quanto alla musica, detto che si è impiegata l’edizione (critica?) di Damien Colas (che ha rispolverato da manoscritti conservati a Parigi un’estensione dell’aria di Pamira dell’atto II, un giro-extra di danze prima dell’Hymne, e ha fatto cantare nella chiusa dell’opera le donne greche) direi che Radio3 ci ha portato gradevoli sensazioni: l’OSN-RAI non si scopre oggi, mentre una buona impressione ha fatto l’esordiente coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che gioca un ruolo per nulla secondario in questo grande affresco a sfondo storico-patriottico.

Luca Pisaroni si è calato in modo convincente nei panni di quel Mahomet che storicamente era un autentico flagello, mentre Rossini lo ammanta di un’aura di nobiltà, mettendone in risalto i caratteri di uomo amante delle arti e di sincero innamorato: qualità che la voce chiara e baritonale di Pisaroni ha efficacemente interpretato. Nino Machaidze (mi) ha ben impressionato, avendo fatto emergere le due facce della personalità della protagonista: donna attirata dall’amore addirittura verso il nemico mortale della sua gente, ma poi eroina e patriota esemplare, fino all’estremo sacrificio. I due tenori del campo greco (il comandante John Irvin e l’eroico Sergey Romanovsky) hanno sfoggiato belle voci (forse troppo... simili, il primo dovrebbe essere più baritenore) e tecnica apprezzabile nei (pur non esagerati) virtuosismi cui Rossini chiama i due personaggi (Romanovsky ha anche sfoggiato un sicuro RE sovracuto). Efficace anche Carlo Cigni (come Hiéros) nel suo accorato ed autorevole appello del terz’atto. Oneste le prestazioni dei tre comprimari, tutti usciti dall’Accademia rossiniana: Cecilia Molinari (apprezzabile la sua ballade dell’atto II) Xabier Anduaga, e Iurii Samoilov.

Tutto sommato, un inizio abbastanza promettente.   
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Promesse direi proprio mantenute con La pietra del paragone, questa commedia brillante dal soggetto assurdo e strampalato, che il grande Gioachino ventenne ha saputo ricoprire con musica strepitosa, ancora una volta nobilitata dall’esecuzione impeccabile dell’OSN-RAI guidata da un sempre più convincente Daniele Rustioni.

Ma anche il cast, quasi interamente di provenienza dall’Accademia rossiniana, ha ben figurato, con punte di spicco in Maxim Mironov e Aya Wakizono. Accanto a loro un efficace Gianluca Margheri e il navigato Paolo Bordogna. Un filino sotto metterei le due babbione (!) Aurora Faggioli e Marina Monzó. Completano dignitosamente la squadra Davide Luciano e William Corrò, mentre il Coro del Ventidio Basso ha confermato il suo valore.

Stando ai suoni arrivati via etere, si direbbe di un caloroso successo di pubblico.
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E Torvaldo&Dorliska ha degnamente chiuso il primo turno delle recite rossiniane. Ascoltandola ci si stupisce sempre di come sia tuttora sottovalutata e negletta: poichè trattasi invece del miglior Rossini, con arie, duetti e concertati di prim’ordine, che impegnano al massimo livello il cast delle voci.

E quella messa in campo dal ROF è davvero una squadra di tutto rispetto, composta da veterani del Festival e da giovani e giovanissimi prodotti dell’Accademia. Fra i primi spiccano Carlo Lepore e Nicola Alaimo, veri trascinatori della squadra; in cui hanno ben meritato Dmitri Korchak, anche lui ormai di casa a Pesaro, e Salome Jicia, uscita dall’Accademia non più di due anni orsono e già al secondo ROF da protagonista, dopo il battesimo con Elena nel 2016. Bene anche Raffaella Lupinacci, tornata a tre anni di distanza dalla Publia dell’Aureliano, e Filippo Fontana, che ha completato il cast.

L’Orchestra Sinfonica G.Rossini - Provincia di Pesaro-Urbino ha supportato egregiamente cantanti e Coro della Fortuna di Mirca Rosciani; tutti ben concertati da Francesco Lanzillotta, esordiente al ROF, ma anche lui ormai entrato nel gruppo dei giovani Direttori italiani di talento.
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Ernesto Palacio, Direttore artistico del Festival, ha annunciato ai microfoni di Radio3 il palinsesto principale del ROF-39: Ricciardo&Zoraide, Adina, Viaggio e Barbiere, quattro nuove produzioni per festeggiare adeguatamente il 150° anniversario della scomparsa di Rossini.

06 agosto, 2017

ROF-XXXVIII. Torna Le Siège


Dopo 17 anni fa la sua ricomparsa al ROF una delle opere più interessanti di Rossini. Interessante soprattutto perchè è la prima vera opera (per carità, non intendo con ciò squalificare Il Viaggio a Reims...) predisposta dal Gioachino (1826) appositamente per il teatro francese, quindi con struttura (3 e non 2 atti) lingua (francese e non italiano) e contenuti (tenore al posto del contralto en-travesti, balletti, ambientazione geo-storica) confacenti a gusti, tradizione e attualità politica di quel mercato.

Dico predisposta, e non composta, dacchè sappiamo come essa fu in realtà un rimaneggiamento, peraltro sostanzioso, del Maometto II di origine napoletana (1820) poi già emigrato a Venezia (1822-23) previo opportunistico - e geopolitico! - travestimento, consistente nel disinvolto ribaltamento del finale tragico in uno strampalato lieto-fine (Tancredi a rovescio, per dire...) preso di peso a prestito dalla Donna del Lago

Il ritorno dell’opera in patria (L’assedio di Corinto) avvenne poi con la traduzione in italiano del libretto francese, opera del solito Calisto Bassi, preceduta però da un’altra (diversa, attribuita vuoi allo stesso Bassi o ad anonimo) impiegata per la prima esecuzione (in forma di concerto) in Italia, giovedi 27 dicembre del 1827 a Roma:


Fu un ritorno costellato da una lunga serie di manomissioni, prima fra tutte il ripristino sempre più frequente del contralto en-travesti per il ruolo di Neocle (che però nella citata prima esecuzione italiana del 1827 fu ancora interpretato da un tenore, Pietro Angelini, come pure alla Scala, da Gioachino Musatti nel 1828 e da Atanasio Pozzolini nel 1853...) Nella seconda metà del ‘900 la versione italiana fu poi inquinata, oltre che dalla standardizzazione del ruolo di Neocle al contralto, dal ripescaggio di parti del Maometto omesse da Rossini nel Siège. Tutto ciò finì per nuocere gravemente alla salute dell’opera. (Come scrisse il compianto Gossett, che su Rossini la sapeva lunga più di chiunque altro: a guadagnarci furono solo alcune cantanti che ci costruirono la carriera, a perderci fu... il povero Rossini). 
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Il Maometto si giovò del testo di un gran letterato (Cesare Della Valle, Duca di Ventignano) che vi condensò quello di una sua tragedia in 5 atti (Anna Erizo): siamo nel 1470 a Negroponte, nome dato dagli occupanti veneziani alla lunga isola, nota come Eubea, che corre da nord-ovest a sud-est, a nord di Atene, parallelamente al continente dal quale è separata da un istmo assai stretto (50m, località Calcide) dove Maometto II sta per piegare la resistenza dei difensori veneziani. È quindi uno sfondo storico, ma la tragedia del Della Valle (e quindi il libretto e quindi l’opera rossiniana) più che su di esso si focalizza sul dramma della vicenda personale (nulla di storico qui, ma un’invenzione bella e buona!) dei protagonisti: il condottiero musulmano e Anna, figlia del Provveditore (bailo) veneziano Paolo Erisso. Che si sarebbero incontrati tempo addietro a Corinto (dove storicamente mai risulta essersi trattenuto l’Erisso) e colà innamoratisi (lui spacciandosi per Uberto, plenipotenziario veneziano a Mitilene-Lesbo). Maometto per amore è disposto ad elevare Anna al ruolo di moglie e Regina. Ma lei, fedele agli ideali patriottici del padre e del suo innamorato veneziano (Alvise) Calbo, contralto en-travesti, piuttosto che cedere a colui che amava (ma si è poi rivelato come il nemico più pericoloso) si trafigge con un pugnale, per dare al tiranno musulmano un esempio del valore degli italiani (e di tutta la civiltà occidentale, aggiungo io) che gli renderanno la vita difficile quando cercherà di conquistarli all’Islam.

Su Anna Erizzo, la cui stessa esistenza mai è stata storicamente provata, si sono in compenso scritte tragedie a profusione; fra le quali una (farsesca, tipo... Aretino) davvero strepitosa, opera dell’abate (!?) Angelo Maria Barbero (1773) in cui la bella Anna si trasforma in novella Giuditta ed eroicamente taglia di netto il capo pisello di Mehemed! (Poi i suoi cari vengono semplicemente segati e/o impalati e lei stessa, con annessa segretaria, arsa viva...)

È interessante qui notare qualche differenza non insignificante fra il contenuto della tragedia del Della Valle e quello del libretto (che peraltro da quella riprende proprio di peso interi passaggi). Differenza che riguarda in particolare alcuni dettagli relativi alle circostanze dell’incontro fra Maometto (sedicente Uberto) e Anna a Corinto. Nella tragedia vengono presentati alcuni dettagli che nel libretto furono invece cassati: Erisso, prevedendo l’attacco turco a Corinto, si reca a Venezia per chiedere oro e risorse per la difesa della città, in cui lascia la moglie inferma e la figlia Anna. La quale racconta poi tutti i particolari del suo incontro con il sedicente Uberto: un bel giorno la dimora sua e di sua madre venne avvolta dalle fiamme e le due donne furono miracolosamente salvate da due individui, uno dei quali (il sedicente Uberto) manifestò poi simpatia e amore per Anna; sentimenti che svanirono di colpo, insieme alla persona che li manifestava, nel momento stesso in cui lei gli comunicò l’imminente ritorno del padre (!) Anna confessa di aver pianto questa perdita per un lustro e mezzo mentre Maometto confesserà di aver rivisto Anna dopo quasi due lustri (10 anni).

Ciò ci porta a ipotizzare che – nella tragedia del Della Valle - l’episodio incriminato sia da collocare temporalmente proprio durante l’assedio (e l’incendio) di Corinto, quindi nel 1459. Qui peraltro nasce una chiara contraddizione, poichè Maometto ha confidato di aver visitato Corinto (e Argo e Negroponte) su ordine del padre, che però morì nel 1451 (anno del re-insediamento di Maometto a sultano): ergo Maometto doveva essere a Corinto in missione ben prima del 1451, e non già ai tempi dell’assedio, da lui stesso posto alla città nel 1459! Per di più, è davvero inverosimile che il sultano in persona fosse in giro per Corinto incendiata e per caso gli capitasse di salvare una donna cristiana!

Il libretto è invece assai più vago: Anna confessa il suo innamoramento ai tempi di Corinto, quando il padre la lasciò per recarsi a Venezia, ma nulla riconduce nel suo racconto all’imminenza dell’assedio; non solo, ma lei non rivela per nulla le circostanze precise dell’incontro (incendio e salvataggio da parte del finto Uberto) gettando quindi sul suo amante il sospetto di essere null'altro che un volgare millantatore ed approfittatore.

Va ora ricordato un piccolo ma significativo particolare: Rossini modificò d’autorità il testo del Della Valle, che chiudeva l’opera con un riferimento, per così dire, politico: alla concisa, poetica e patriottica esternazione di Anna sostituì una prosaica e privata rivelazione (di fatto più vicina al finale della tragedia d’origine) che Maometto e gli astanti commentano con melodrammatiche quanto banali esclamazioni di circostanza:

Maometto II
Cesare Della Valle

ANNA (appoggiandosi al sepolcro della madre)
E tu che Italia… conquistar… presumi…
impara or tu… da un’itala donzella
che ancora degli eroi la patria è quella.
(cade morta appiè del sepolcro.)

Rossini

ANNA
Sul cenere materno
io porsi a lui la mano,
il cenere materno
abbia il mio sangue ancor!

MAOMETTO e CORO
T’arresta, che istante orribile!
Oh giorno di dolor!
Già muore, oh Dio, la misera;
oh giorno di dolor!

Quando, nel 1826, Rossini si sentì praticamente obbligato a presentare al pubblico francese un’opera dai caratteri locali, era in pieno svolgimento la guerra di liberazione greca dai musulmani, che porterà - di lì a tre anni - al definitivo riconoscimento dell’indipendenza della Grecia dall’Impero ottomano, e a Parigi i progressisti e liberali, ma anche artisti di avanguardia, ne facevano una bandiera, strumentalizzandola contro le posizioni reazionarie del governo borbone, tanto che, pochi mesi prima della creazione del Siège, Rossini aveva diretto le prove di un concerto in appoggio ai ribelli greci, che aveva avuto enorme risonanza.

Quale che sia stato il peso della politica sulla scelta del titolo della prima opera autenticamente francese di Rossini, è innegabile che il soggetto del Maometto napoletano potesse essere sfruttato a fini, come dire, pubblicitari, e così ecco che con qualche ritocco di ambientazione, il Maometto, messo sotto i ferri dei librettisti Luigi Balocchi (quello del Viaggio) e Alexandre Soumet, si trasformò nel Siège. Qui, a fronteggiare gli sbifidi musulmani, al posto dei veneziani, sono i patrioti greci e il teatro dell’azione è Corinto (oggi nota per il famoso istmo) che si trova ad ovest di Atene; e il periodo è di 11 anni anticipato (1459) rispetto alla presa di Negroponte, teatro del Maometto napoletano.



Maometto II è sempre lui (in gallico: Mahomet), solo un po’ più giovane, e la co-protagonista prende il nome di Pamira, figlia del capo dei greci (Cléomène) di cui Mahomet si è invaghito tempo addietro incontrandola ad Atene, sotto le mentite spoglie di Almanzor. Il suo amante greco è Néoclès (il Calbo veneziano, ma ora tenore). Pamira, dopo aver ceduto, pur intimamente combattuta e maledetta dal padre, alle profferte del capo musulmano, si pente e alla fine si suicida, mentre i suoi compatrioti, fra l’esultanza barbara dei turchi, danno alle fiamme la cittadella pur di non cadere in schiavitù.

Un aspetto importante è che, anche qui nel Siége come nel Maometto, Rossini decide di alterare sensibilmente il testo del finale dell’opera. Che prevede la massima concisione della chiusa - un semplice quanto disperato O patria! dei greci, dove il suicidio di Pamira nemmeno è esplicitamente mostrato, per lasciare la scena all’evocazione dell’orrenda carneficina - a sostituire l‘esternazione della protagonista e delle sue donne, il suo suicidio e la disperazione di Mahomet, contrappuntata dall’esultanza dei musulmani:

Le Siège de Corinthe
Luigi Balocchi e Alexandre Soumet

MAHOMET
Que Pamira soit ma conquête!
Qu’on la saisisse! Allez!…

PAMIRA
Arrête,
Ou ce poignard perce mon sein.

MAHOMET (avec effroi)
Pamira!..
  







Ciel! quelle tempête,
Autour de nous, mugit soudain.
(On entend éclater l’incendie; le mur s’écroule.)






CHOEUR DE GRECS
O Patrie!

PAMIRA
(On voit Corinthe embrasée.)
Entends le chant de notre fête;
Vois le flambeaux de notre hymen.

Ensemble
ISMENE, CHOER de FEMMES
Chantons, chantons l’hymne au courage!
Un Dieu nous voit du haut des cieux;
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Corinthe expire dans les feux.

PAMIRA
Chantons, chantons l’hymne au courage!
Un Dieu nous voit du haut des cieux;
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Ce fer sacré reste à mes voeux.
(Elle se frappe.)

MAHOMET
Cruel délire! aveugle rage!
Nuit sanglante! dèsastre affreux!
Pour fuir les fers de l’esclavage,
Corinthe expire dans les feux.

CHOEUR DE MUSULMANS
Heureux délire! ô douce image!
Corinthe expire dans les feux.
Tous ces malheurs sont notre ouvrage,
le sort enfin comble nos voeux.
(La toile tombe.)
Rossini

MAHOMET
Que Pamira soit ma conquête!
Qu’on la saisisse! Allez!…

PAMIRA
Arrête,
Ou ce poignard perce mon sein.

MAHOMET
Pamira!..
(On entend un bruit sourd. Des flammes se font jour à travers les murs qui s’ébranlent et s’écroulent au fond. Les soldats dans le plus grand trouble gagnent la droite du public; et sur les mots:)

MAHOMET, CHOEUR DE TURCS
Ciel! quelle tempête,
Autour de nous, mugit soudain.
(Tout le fond s’écroule et laisse voir l’embrasement de Corinthe. A travers les flammes et les décombres on voit les musulmans poursuivre les Grecs et les égorger avec rage. Les femmes se jettent à genoux.)

CHOEUR DE GRECS (dans le lointain)
O Patrie!
(Tout le théâtre est en feu! Le rideau baisse sur cet horrible tableau.)

Ecco, mentre a Napoli Rossini spostava l’enfasi dal politico al privato, a Parigi fece praticamente il contrario, così accontentando il vasto pubblico impegnato della capitale francese.

Per la verità al patriottismo dei greci, assai enfatizzato rispetto all’opera napoletana (si pensi solo alla struggente benedizione dei vessilli da parte di Hiéros) si contrappone sì la barbarie musulmana (però... cosa non è quell’Hymne!) ma non quella del sultano, la cui figura viene ulteriormente nobilitata (per così dire) rispetto a quella del Maometto napoletano, che già aveva marcati tratti di magnanimità e sensibilità agli affetti e al sentimento. Qui il sultano addirittura ordina ai suoi rozzi e sanguinari soldati, che vorrebbero devastare ogni cosa (e che alla fine esulteranno per l’incendio appiccato dagli stessi greci alla cittadella) di risparmiare tutte le opere pubbliche e i monumenti d’arte di Corinto, perchè tramandino ai posteri la sua gloria e la sua grandezza!
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Il libretto francese dovette ovviamente passare al vaglio della censura: due revisioni letterarie e poi il nulla-osta del segretario del Ministro dell’Interno. I due revisori usarono frasi di questo genere:

- non si è mai visto un soggetto dalla concezione più falsa e dall’intrigo più miserabile;
- che l’uomo più celebre dell’universo abbia potuto intrattenere un legame amoroso sotto mentite spoglie, è cosa che più incredibile non si può;
- che possa essere sbocciato un amore fra un musulmano e una cristiana virtuosa è cosa spiegabile soltanto con l'eccessiva libertà che in Italia si concede a librettisti e drammaturghi;
- il matrimonio in-extremis fra Pamira e Néoclès (che lei non ama!) è una ridicola scimmiottatura di quello di Tancredi (che almeno era amato...)

Tuttavia i revisori si dichiararono onorati di suggerire l’autorizzazione alla messinscena. Quanto al segretario del Ministro, si limitò a citare quattro versi pericolosi: chiedendo, come condizione per l’OK, di eliminare i riferimenti alla LibertéPasseranno pochi anni prima che (nel Tell) la libertà venga tollerata. Nel 1875 Bizet potrà farla gridare a squarciagola ai suoi briganti spagnoli.
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A mo’ di cazzeggio, vediamo invece cosa comporta questo sdoppiamento rossiniano dell'esistenza maomettana: provando a correlare le vicende dei due libretti (esclusa quindi la tragedia Anna Erizo, di cui abbiamo già osservato alcune incongruenze); facendo attenzione alle date (anche quelle storicamente accertate della vita del sultano) e muovendoci in sequenza cronologica.

Nel Maometto napoletano il sultano confida di aver visitato – in veste di inviato-spia di suo padre nel campo nemico – Argo, Negroponte e Corinto. Essendo lui (nato nel 1432) divenuto definitivamente sultano alla morte del padre nel 1451 (quindi a 19 anni) ne consegue che al tempo di quelle missioni esplorative doveva avere al massimo 17-18 anni. Orbene, a Corinto lui incontra (presentandosi come Uberto) Anna e se ne innamora, ricambiato. Subito dopo, o subito prima (apprendiamo dal Siège parigino, dove si limita a dire di aver percorso la Grecia sotto il nome di Almanzor) Mahomet incontra ad Atene Pamira, di cui si innamora, ricambiato.

A questo punto (1451) lui (ri)diventa sultano e comincia la sua inarrestabile carriera di conquistatore (Fātih): nel 1453 espugna Costantinopoli, poi arriva a Corinto (1459, a 27 anni) e qui (Siége) ritrova Pamira, cui conferma il suo amore (scoppiato almeno 10 anni prima) ma ottenendone un rifiuto ed essendo testimone dell’eroica fine di lei, suicida.

11 anni dopo, nel 1470 (quindi a 38 anni) Maometto assedia Negroponte e (stando al testo del Maometto II) vi ritrova Anna (che non può certo essere una giovincella, a questo punto...) cui conferma il suo amore (scoppiato almeno 20 anni prima!) ma ottenendone un rifiuto ed essendo testimone dell’eroica fine di lei, suicida proprio come Pamira!

Insomma, nel microcosmo rossiniano il sultano fa proprio la figura del conquistatore... di femmine; anzi, in stretta osservanza della poligamia islamica, lui ne conquista un paio quasi contemporaneamente. Poi però, quando le ritrova a distanza di anni e anni e si rivela loro come il conquistatore del mondo intero, ecco che le due donne (pur verosimilmente... ehm... mature se non proprio appassite) lo respingono con disprezzo e, pur di non concedersi, si suicidano (!)

Che dire? Diamo ragione ai censori parigini? Potenza dei libretti d’opera!!!
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E la musica? Sempre per restare sul piano delle curiosità, parliamo di imprestiti e auto-imprestiti da opere sue o di altri, a cui Rossini non si sottrasse nemmeno per il Siège, dove ovviamente la parte del leone la fa Maometto II, per evidenti ragioni. Ma non mancano catene di imprestiti, come il tema che compare nell’Ouverture subito dopo le 28 battute introduttive (a loro volta mutuate da Bianca&Falliero): si tratta della Marche lugubre grecque, che Rossini fu accusato di aver copiato di peso dalla Marcia religiosa dall’oratorio scenico Atalia di Johann Simon Mayr, che lui conosceva bene per averlo diretto a Napoli nel 1822. In realtà quel tema non è nemmeno di Mayr, ma è preso quasi alla lettera (da Mayr prima e da Rossini poi) dall’aria Signor, non tardi dunque il tuo soccorso dal Salmo XXI di Benedetto Marcello (si ascolti qui da 21’55”) che a sua volta si ispirava a quelli ebraici del tedesco Heinrich Schütz:


Si noti in particolare la sestina evidenziata in rosso alla fine della frase: è uno sviluppo, piuttosto bizzarro e persino quasi sgrammaticato, della chiusa della prima frase (evidenziata in blu). Ebbene, si noterà come Rossini l’abbia copiata di sana pianta, ma lo stesso aveva fatto prima di lui il Mayr (si ascolti qui a 42”). L’unico dubbio che rimane è se Rossini abbia copiato Mayr o direttamente l’originale di Marcello...

Per restare all’Ouverture, in essa troviamo il tema del finale dell’Atto II (con relativo crescendo): esso viene dal Gloria della Messa di gloria, contemporanea del Maometto II. Qualcosa dell’ouverture del Viaggio a Reims fa capolino nel balletto del second’atto. Il quale si apre (quando non con l’aria di Pamira) con la ballata di Ismène e coro (L’hymen lui donne une couronne) presa pari-pari dal primo atto di Ermione (Dall’Oriente l’astro del giorno). E dalla stessa Ermione è mutuato il finale dell’atto primo (Pirro, deh serbami la fé giurata) che, dopo essere stato impiegato in Eduardo&Cristina (Signor, deh, moviti – Sgombrate o perfidi) migra con qualche variazione nel Siège (Jour dèplorable - Fille rebelle). 

Mettendo insieme citazioni di autori diversi si viene a conoscenza di un’altra complessa filiera di imprestiti, quella che produsse l’aria di Néoclès (C’est toi, c’est toi, grand Dieu) nel terz’atto del Siège: secondo Jean Cabourg (l’Avant-Scène-Opéra, 1985) essa proviene dalla Gazza ladra, ma da un’aria che non si ascolta mai, precisamente da Barbara sorte, aria alternativa per il primo atto composta appositamente a Napoli nel 1819 per il Fernando del tenore Andrea Nozzari (che nella circostanza si esibiva da... baritono); a sua volta Arrigo Quattrocchi segnalò (1997) come quest’ultima aria si basi sul tema dell’ostinato orchestrale del finale dell’atto I di Eduardo&Cristina!

Insomma, il grande Gioachino sapeva bene come e dove trovare ogni volta le tessere del nuovo mosaico che andava costruendo, e il mosaico riusciva sempre, miracolosamente, perfetto!