ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

27 settembre, 2010

Il Boris (ma quale?) inaugura la stagione del Regio-TO


Martedi 5 ottobre Gianandrea Noseda dirigerà – per l'apertura della stagione del Regio di Torino - Boris Godunov di Modest Musorgski (ore 20, diretta su Radio3).
Che il Boris – inizialmente per mano dello stesso Musorgski e successivamente di Rimsky e altri, Shostakovich incluso – sia stato visto, rivisto, mutato, trasmutato, avvolto e stravolto infinite volte, è un dato di fatto, e forse nemmeno esiste un elenco esaustivo di tutte le versioni impiegate, da 130 e più anni in qua, per le rappresentazioni dell'Opera.
Però al melomane medio, quello che legge qualche libro, va qualche volta a teatro e compra qualche CD o DVD, risultano fondamentalmente: le due versioni originali dell'Autore (1869, in 7 quadri, e 1872, in 9 quadri accorpati in un prologo e 4 atti); la splendida (checché se ne dica) seconda versione di Rimsky (1908, che rimaneggia l'originale del 1872, e ne inverte i due quadri finali) e i pastiche di Pavel Lamm e poi di David Lloyd-Jones, che praticarono la fusione fredda delle due versioni, aggiungendo alla seconda il quadro espunto dall'Autore, all'inizio del quarto atto, per un totale quindi di 10 quadri.
Ma adesso arriva il creativo Andrei Konchalovsky che si inventa – in combutta con Noseda - un nuovo, ennesimo Boris, sommariamente descritto sul sito del Regio: è la prima versione, del 1869, ma rivoltata come un calzino (ordine invertito fra i quadri 2 e 3) e con aggiunta di ingredienti di quella del 1872 (il quadro di Kromy, infilato fra gli ultimi due). In tutto: 8 quadri più un …epilogo. Effettivamente può darsi che sia quindi una vera e propria prima mondiale!
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Riporto dal sito del teatro (sottolineatura mia): Gianandrea Noseda e Andrei Konchalovsky propongono una versione originale frutto di interventi drammaturgici sull'Ur-Boris con una nuova successione di scene che rispettano la cronologia degli accadimenti storici. Ecco, l'ultima frase è proprio da incorniciare, perché fa sorgere una domandina da nulla: da quando in qua il compito di un regista e di un direttore non è più quello di portare in scena un'opera come l'ha concepita il suo Autore, ma di fare della divulgazione storico-scientifica? Che il Boris (anzi, il doppio Boris) di Musorgski ci racconti vicende storiche è scontato, ma a noi che cosa importa? Vedere ed ascoltare l'Opera originale, o andare ad una lezione di storia, dove l'Opera viene stravolta? Chè, se fosse quest'ultimo il nostro obiettivo, allora dovremmo accettare, anzi reclamare, ristrutturazioni delle scene del Don Carlos, dei Vespri, dei Puritani, della Bolena e financo dell'Andrea Chénier!
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Nel caso specifico, la cronologia degli accadimenti storici – che ha determinato la struttura drammatico-musicale dei due Boris (pur tra loro così diversi) - è quella che Musorgski ha mutuato dal Boris di Pushkin, il quale a sua volta la mutuò dalla Storia dello stato russo di Nikolaj Michajlovich Karamzin. E i Boris di Musorgski dovrebbero restare quindi come furono composti, indipendentemente da qualunque ri-scoperta storica sia stata fatta in tempi successivi. Quindi sappiamo senza ombra di dubbio che l'incoronazione di Boris (quadro 2) avviene pochi mesi dopo le manifestazioni a Novodevici (febbraio 1598, secondo Pushkin, quadro 1) mentre la vicenda di Pimen e Grigori (quadro 3) è collocata da Pushkin cinque anni dopo (1603)! Orbene, come si possa ristabilire una cronologia di accadimenti storici invertendo l'ordine dei quadri 2 e 3, cioè facendo precedere il 1598 dal 1603, è cosa davvero stupefacente! Così come lo è l'inserimento del quadro di Kromy fra i due quadri finali e quindi - proprio à la Rimsky – non dopo, ma prima della morte di Boris; salvo poi spostare l'imprecazione dell'Idiota alla fine, come epilogo del dramma. Tutti questi interventi equivalgono ad un vero e proprio inquinamento (e quindi snaturamento) della versione del 1869 – quella che si dichiara di voler mettere in scena - con quella del 1872, che sappiamo essere radicalmente diversa come spirito, focus e struttura drammaturgica (hai detto niente!) Insomma, si scimmiotta Rimsky proprio mentre si dichiara di volersi rifare all'originale di Musorgski.
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Dopodichè, per carità, possiamo ben sperare che lo spettacolo regga ed abbia successo; anche se resta l'impressione di essere di fronte alla solita manìa di protagonismo di un famoso regista cinematografico – cui regge bordone, duole dirlo, Noseda – che deve per forza stupire (e giustificare la parcella) con idee intelligenti ed innovative. Mentre invece Konchalovsky-Noseda non inventano nulla che chiunque di noi non possa realizzare – o aver già realizzato – a casa propria. Un Boris che inizia con l'arioso Ho il potere supremo, e poi va in flash-back a Novodevici? Un altro che principia dall'incontro di Marina e Grigori, poi salta a Kromy, quindi in Lituania e da lì al Cremlino? No-problem: c'è iTunes che ci consente di sequenziare gli MP3 a nostro sentimento. Anzi, una interessante feature del gadget di Steve Jobs risiede nella possibilità di riproduzione random dei diversi brani: così si possono realizzare migliaia, che dico, milioni di nuovi Boris! Pane e companatico assicurati per almeno tre generazioni di registi e direttori. E del resto – taluno ragiona - se il compositore per primo ha fatto una volta strame della sua creatura, perché vietare ad altri di seguirne le orme?
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24 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 3


Capienza dell'Auditorium (sia sul palco che in sala) messa a dura prova dalla Terza di Mahler, che ha dimensioni sterminate sia come numero di esecutori – dove è superata solo dalla ottava - che come durata. Affollatissimo – gente in piedi - anche il foyer, per la conferenza introduttiva, tenuta subito prima del concerto dal professor Giacomo Albert. Preziosissimo il contributo – riprodotto sul programma di sala – dell'indimenticabile Sergio Sablich.
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Ascoltare dal vivo queste sinfonie – mettiamoci anche la seconda, non dico l'ottava – non capita tutti i giorni. E in fondo è un bene, poiché son pietanze che, ingerite troppo di frequente, finirebbero per stomacarti, e farti correre in farmacia a prendere un alka-selzer, o chiedere alla moglie una settimana di brodino caldo fatto col dado-liebig.
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Ma, diciamo, una volta l'anno – come il cappone a SanSilvestro, o il Neujahrskonzert da Vienna – ci può stare… Nel mio caso personale ho esagerato, avendo già trangugiato questa adorabile mappazza a Bologna in primavera! E ad ottobre qui all'Auditorium ci sarà la Auferstehung (mi vien da ringraziare il cielo che Abbado e Pappano ci siano stati risparmiati a giugno…)
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Dunque, la terza del boemo, che ci spiega nientemeno cosa gli raccontano le diverse manifestazioni del creato. È un interminabile (100 minuti, ieri sera!) sentiero che parte dalle montagne del Salzkammergut per arrivare fino a …Dio! Transitando magari – in un giorno di festa - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche; camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne dal defunto cuculo all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani (pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore, nella fattispecie tale Beethoven! (poi supportato qua e là da un creatore-bis, a nome Giuseppe Verdi.)
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Tardo-romanticismo, come si legge su qualche affrettata recensione, con definizione ambigua e vago compatimento. Oppure megalomania da quattro soldi. O anche retorica sesquipedale. Sarà, ma – presa in dosi ragionevoli – continua a raccontare qualcosa anche a noi, scafati post-moderni.
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Enorme trionfo per tutti: la finlandesina Monica Groop, i cori delle signore di Erina Gambarini e dei ragazzini/e di Maria Teresa Tramontin, candidi/e come angioletti, il postiglione Alessandro Caruana (che si è fatto sentire da dietro le quinte - immagino prendesse gli attacchi dalla Zhang ripresa da una telecamera) e naturalmente la cinesina dei navigli, che si proponeva di mescolare Walter e Bernstein, ma in fondo deve aver diretto come …Mahler!
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Il prossimo concerto vede ancora protagonista l'inattuale boemo, insieme a quello che ne fu di certo l'ispiratore: Robert Schumann. E sarà ancora Xian Zhang a dirigerne le quarte.
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23 settembre, 2010

L’Occasione rossiniana alla Scala


Il penultimo appuntamento della stagione della Scala è dedicato a Rossini – che così raggiunge Wagner e Verdi, come autore più eseguito nel 2009-2010 - e agli artisti dell'Accademia scaligera, interpreti di L'occasione fa il ladro con la messinscena – gallina vecchia fa buon brodo – del grande e mai abbastanza compianto Ponnelle. Teatro assai affollato (solo qualche buco in platea) per questa farsa – burletta per musica, per la precisione – di un Rossini ventenne, che sprizza genialità da tutti i pori.

Una bella vetrina per i giovani dell'Accademia, che sono il prodotto del vivaio scaligero; importante la presenza femminile in Orchestra - quasi la metà dei 50 esecutori! - e tutte interessanti le voci sul palcoscenico. Trionfo in particolare per la negretta Pretty Yende (Berenice, qui con Bocelli nel suo SudAfrica) e grandi applausi anche per Leonardo Cortellazzi (Alberto); ma anche gli altri (Massimo Cavalletti in Parmenione, Evis Mula in Ernestina, Jaeheui Kwon in Eusebio e Filippo Fontana in Martino) non hanno affatto demeritato.
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Daniele Rustioni (che ha preso lezioni da Davis, Masur e Noseda) ha diretto i giovani con bel piglio, facendo emergere i tesori di questa partitura, un gioiellino in cui si intravedono già squarci di ciò che Rossini comporrà di lì a poco, nel campo del buffo, ma anche tracce di romanticismo.
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22 settembre, 2010

Muti alla conquista di Chicago

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Le finestre di un grattacielo sovrastante il Millennium Park, dove Riccardo Muti ha diretto il concerto di benvenuto, davanti ad una folla da stadio, si illuminano adeguatamente per accogliere il nuovo Direttore musicale della gloriosa CSO (Abbado avrebbero dovuto scriverlo in verticale; per Thielemann invece… non ci sarebbe spazio):






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Alla fine del concerto, fuochi d'artificio! (siamo in America o no? e Muti non sarà mica da meno di Dudamel…)
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C'è chi guarda all'arrivo del nostro con grande fiducia e ammirazione.
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Per par-condicio: c'è anche chi si dice certo che Muti rovinerà la CSO come fece, anni orsono, con la Philadelphia (e in Italia c'è di sicuro qualcuno che aggiungerebbe: …e poi con la Scala).
In any case… auguri maeschtro!
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21 settembre, 2010

Noseda per la sua città


Il prossimo 20 ottobre, ore 21, il Teatro degli Arcimboldi a Milano (in realtà ad un tiro di schioppo da Sesto San Giovanni) ospiterà Orchestra e Coro del Regio di Torino, guidati dal Direttore musicale Gianandrea Noseda (che all'epoca saranno freschi reduci dalle fatiche del Boris torinese). Si tratta di un concerto volto a raccogliere fondi per il recupero di alcuni giardini storici di Sesto.

Il sestese Noseda, anche se ormai cosmopolita (è anche Direttore principale della BBC Philharmonic, oltre che animatore del Festival di Stresa, dove ha fissato la sua residenza, e fresco di nomina a Direttore ospite a Pittsburgh) vuole così dimostrare l'attaccamento alla sua città di origine.

Un programma tutto russo (forse un omaggio all'ex-Stalingrado d'Italia?) che comprende l'Alexandr Nevskij di Prokofiev e la Seconda Sinfonia di Rachmaninov.
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20 settembre, 2010

A Rimini con Nagano e i bavaresi

A Rimini siamo a fine stagione (ormai l'equinozio incombe) e, tra uno squarcio di sole ancora cocente e uno scroscio di pioggia e vento, le spiagge cominciano lentamente a tornare al loro aspetto naturale (inquinamento incluso) dopo essere state tenute accuratamente pulite, per tutta l'estate, ogni santo giorno, dalle 6 alle 8 del mattino, dai rastrelli dei bagnini e dalle ruspe della Hera.

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A parte qualche sfigato bulgaro, gli ultimi turisti in riviera sono tedeschi, nella fattispecie gli orchestrali della Sinfonica Bavarese, che Kent Nagano ha guidato nell'ultimo Concerto della Sagra Musicale Malatestiana n° 61. Il capelluto californiano ha diretto due immortali capolavori: di Strauss e Bruckner.

Sarà solo un caso, ma il fatto che – a pochi mesi e giorni di distanza, rispettivamente, dai 65 anni della resa tedesca e delle bombe atomiche americane sul Giappone – una formazione teutonica guidata da un direttore americano dalla chiara ascendenza nipponica, esegua le straussiane Metamorphosen suscita – in chi proprio allora approdava su questa valle di lacrime - qualche brivido.

La guerra sta per finire (Churchill, Roosevelt e Stalin si sono appena incontrati a Yalta per accordarsi sulla prossima spartizione del mondo) e il quasi ottantunenne Strauss vive ritirato nella sua sontuosa villa di Garmisch (frutto dei proventi di Salome) a meditare sull'ormai imminente disfatta della Germania, e con essa anche del suo ideale guglielmino, la cui realizzazione aveva opportunisticamente delegato a tale Hitler. Il 13 marzo del 1945 – precisamente all'indomani del bombardamento dell'Opera di Vienna - verga le prime note di Metamorphosen, che sta rimuginando da qualche tempo, nach Goethe. Le ultime le scrive in partitura esattamente un mese dopo, il 12 aprile (proprio mentre gli occupanti sovietici arrivano a Berlino e Roosevelt trasloca presso il creatore); ci infila, nei righi dei violoncelli 3-4-5 e dei tre contrabbassi, una citazione letterale della marcia funebre dell'Eroica, aggiungendovi sotto il motto: In memoriam!















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Non l'avesse mai fatto: un azzeccagarbugli olandese - stando a Bruno Walter, che ne raccolse l'indignazione – troverà un'analogia con Napoleone, primo dedicatario della terza, e dichiarerà quindi trattarsi di un anticipato epitaffio a Hitler (al tempo ormai asserragliato nel suo bunker, dove si preparava a festeggiare con qualche grattacapo il 56° compleanno) e quindi da bandirsi come apologia del nazismo (?!)

Pochi giorni dopo, precisamente nelle stesse ore del 30 aprile in cui il Führer si decide a farla finita, a Garmisch arrivano gli occupanti americani per requisirgli la villa: salvata questa per puro miracolo (vuole il caso che l'ufficiale esecutore sia un ammiratore delle sue opere!) Strauss non può però sfuggire agli oneri (umiliazioni incluse) della de-nazificazione e così – quattro mesi dopo aver compiuto le 81 primavere – parte per il suo esilio in Svizzera (si direbbe… sulle orme di Wagner) dove chiuderà la sua interminabile stagione continuando a scrivere musica, e grande, come il Concerto per oboe e gli ultimi Lieder, prima di tornare – nel 1949, ma ormai solo per morirvi - nella sua casetta di Garmisch.

In Svizzera, Strauss dovette inizialmente mendicare un po' di compassione, e ne trovò parecchia in tale Paul Sacher (niente a che vedere con le torte viennesi) un musicista diventato anche, per tramite di un matrimonio farmaceutico, uno degli uomini più ricchi del globo, e musicalmente assai attivo sulla direttrice Basilea-Zurigo. E proprio Sacher - lui accanito sostenitore della musica moderna e senza alcuna affinità elettiva con quella di Strauss - venne generosamente incontro al vecchio marpione, allora caduto in disgrazia (ma se l'era ampiamente voluta, cercata e meritata, o no?) patrocinandone prima la composizione e dirigendone poi, a fine gennaio 1946, la prima esecuzione di Metamorphosen, da parte del Collegium Musicum Zürich, da lui fondato pochi anni addietro. Insomma, un poco più in piccolo, interpretò il ruolo che Otto Wesendonck aveva ricoperto quasi un secolo prima nel caso-Wagner. Ecco perché nell'edizione a stampa il lavoro è doverosamente dedicato a Sacher e al CMZ.

Un lavoro in cui Strauss sembra aver voluto dolorosamente incapsulare tutto un passato: massimamente – proprio nel momento della catastrofe del Terzo Reich - il glorioso ottocento tedesco, da Beethoven a Bruckner, da Wagner a Mahler, senza dimenticare Bach (né sè medesimo, naturalmente). Epperò nel tema iniziale - e colonna portante dell'intera opera - che scende da dominante a sensibile di DO minore, non si può non riconoscere piuttosto il celebre Adagio di Albinoni! Invece, a dispetto dell'assenza di armatura di chiave e della presenza di innumerevoli modulazioni, nessun ammiccamento alla nuova musica, che gli rimase totalmente estranea, sino alla fine.

Nagano e i 23 splendidi solisti dell'Orchestra bavarese ne cavano un'interpretazione ultra-intimista, quasi tutta fra il piano e il pianissimo, proprio come di voci che – cantando mirabili quanto sfuggenti melodie - prendono commiato dal mondo sensibile. Davvero un'esecuzione coi fiocchi, tanto di cappello e… tanti applausi.

Dopo l'ultimo Strauss, il Bruckner della Settima, con l'immensa Orchestra disposta secondo la tradizione tedesca. Anche qui c'è di mezzo un funerale, ma non è (ancora) quello dell'intero pianeta, solo quello del grande incantatore (al secolo: Richard Wagner) che lascia tracce soprattutto nell'Adagio, da Bruckner allungato di 35 misure precisamente sotto l'emozione provocatagli dall'annuncio della Tod in Venedig.

Ed è proprio l'Adagio il protagonista della serata: una cosa indescrivibile, fin dall'ingresso delle 4 tubette wagneriane, che introducono il MI maggiore su cui gli archi espongono il solenne tema principale, roba da togliere il respiro. Sempre emozionante poi il sopraggiungere improvviso del tema in 3/4, FA# maggiore:





Impressionante il crescendo, che porta al famoso quanto apocrifo schianto dei piatti, prima della stupefacente cadenza conclusiva di tubette e corni (che è proprio un altro, grande In memoriam!)

Ma tutta la sinfonia, da cima a fondo, è un'autentica emozione. Bruckner la chiude con una cadenza quasi sospesa, che anche stavolta lascia un po' interdetti gli ascoltatori, che magari si aspettano i soliti pesanti accordi, sottolineati da un colpo secco dei timpani, e che ci mettono qualche secondo a carburare i dovuti – e poi robusti e convinti - applausi. Che si protraggono ancora per parecchi minuti, con ripetute chiamate per Nagano, che fa alzare separatamente le sezioni dei fiati, vere protagoniste in questa sinfonia. Bello il gesto dei due violini di spalla che, prima di abbandonare il palco, si abbracciano calorosamente, proprio a mostrarci come il suonare – e bene! - sia per loro un piacere, prima e oltre che una professione.

17 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 2

Ancora Xian Zhang sul podio per il secondo concerto della stagione, con musiche che hanno attorno al secolo di età, o poco più.

Si comincia da… dove sono finiti, neanche una settimana fa, i PROMS-2010: la prima della marce Pomp & Circumstance (da sempre ribattezzata Land of Hope and Glory) di Edward Elgar. Il cui Trio è diventato universalmente famoso:





Forse a un'orchestra italiana farà difetto la cerimonia, ma la pompa no di sicuro, e i ragazzi si scatenano in un'esecuzione trascinante, accolta da fragorosi applausi.

Ancora il bizzarro Elgar con le sue Enigma Variations, in cui il compositore si divertì a ritrarre musicalmente gli amici, personaggi più o meno noti della buona società britannica, ed anche sé medesimo (!) attraverso una serie di 14 variazioni su un tema, che sarebbero ulteriormente legate ad un più ampio tema, che le percorre tutte: e quest'ultimo tema costituirebbe l'enigma cui fa riferimento il titolo. Da più di un secolo (le variazioni sono del 1899) c'è chi si è scervellato per trovare la soluzione: God save the Queen e Auld Lang Syne (il nostro Valzer delle candele) furono proposte all'autore, che negò fossero la risposta giusta e si portò la soluzione nella tomba.

Ma il concorso è continuato negli anni: nel 1976 un musicologo olandese, Theo van Houten, decriptò una frase che Elgar aveva scritto per il programma di sala della prima esecuzione: So the principal theme never appears. Dato che il compositore amava i giochi di parole, la frase si può leggere anche così: So the principal theme never appears, quindi il tema in questione avrebbe attinenza con never. E guarda caso, il più antico canto patriottico britannico, Rule Britannia, contiene la parola never musicata da Thomas Arne esattamente con le prime note del tema di Elgar:






Altri indizi portano alla stessa soluzione, peccato che Elgar non possa confermare o smentire. Intanto, visto che si parlava di PROMS, anche Rule Britannia è una costante delle serate finali: qui è cantata nel 2008 da Bryn Terfel con l'anti-vibratista Norrington (quest'anno è toccato a Renee Fleming).
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Di sicuro la più famosa delle variazioni, spesso eseguita singolarmente, come bis nei concerti, è la n°9, intitolata Nimrod, un grande Adagio di 43 battute in MIb maggiore, dove il tema viene esposto con molta nobiltà, in un continuo crescendo dall'iniziale ppp al ff della finale perorazione, chiusa poi di nuovo in pp. È un grande momento - cui Zhang fa opportunamente seguire una pausa di respiro - che supera esteticamente lo stesso finale, piuttosto enfatico e scontato. Al termine del quale scrosciano trionfali gli applausi per la Zhang e i suoi.
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Dopo l'intervallo arriva Roberto Cominati – gli mancava solo il frac per essere agli antipodi di certi divi di importazione che vanno oggi per la maggiore - a proporci il Terzo concerto di Rachmaninov. Le prime esecuzioni – con l'autore al piano - si tennero a New York, a cavallo fra il 1909 e il 1910: a fine novembre con la mediocre New York Symphony, diretta dal mediocre Walter Damrosch, e a gennaio con la superba NY Philharmonic diretta nientemeno che da Gustav Mahler, che contribuì non poco – con la sua direzione accurata e perfezionista - al successo del concerto. Che peraltro non ha goduto poi di straordinaria simpatia presso i pianisti, molti dei quali gli hanno preferito il secondo e il quarto.
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Da 15 anni a questa parte però il terzo ha ripreso notorietà dopo essere stato in qualche modo protagonista del film Shine che gli ha procurato la fama – piuttosto usurpata, peraltro - di musica che fa ammattire l'interprete, tanta e tale sarebbe la tensione nervosa indotta dalla difficoltà dell'opera. La quale in realtà mette a dura prova più il corpo che la mente dell'esecutore (e anche dell'ascoltatore… smile!)
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E di sicuro Cominati ha mantenuto bene in equilibrio la sua mente, facendo invece impazzire le dita per porgere nel migliore dei modi il tanto (decadente funambolismo) e il poco (costrutto estetico) di buono che troviamo in quest'opera. Il cui tema principale, che torna ciclicamente anche nel Finale, non è propriamente di quelli che lasciano a bocca aperta:





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Qui si può ascoltare la storica registrazione del 1939, con l'Autore al pianoforte: parte1, parte2, parte3.
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Quella di Cominati è una performance eccezionale e - a dispetto di Rachmaninov – lui e l'Orchestra vengono gratificati di calorosissimi applausi, cosicchè il bel quarantenne, sotto una pioggia di bravo! concede anche un bis, assai apprezzato, in particolare – immagino - dalle sue tante ammiratrici… The man I love.
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Il prossimo appuntamento è di quelli che capita di prendere assai raramente: con l'ipertrofica Terza di Mahler, che sarà anche eseguita in anteprima mercoledi 22 per il MI-TO.
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PS: continuano le iniziative della Fondazione per avvicinare i giovani alla musica. Quest'anno, ogni venerdi sera, c'è la Happy Hour abbinata al concerto in programma, il tutto a soli 10€, per i ragazzi fino a… 30 anni! Chi ha la fortuna di essere giovane, ne approfitti… prima che sia troppo tardi: prosit!
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16 settembre, 2010

Ancora MiTo con Tilson Thomas

L'enorme Arcimboldi – invero difficile a riempirsi - ha ospitato ieri sera una delle serate clou del MI-TO. Ospiti la SanFrancisco Symphony ai comandi di Michael Tilson Thomas.

Un programma tutto francese, da Berlioz a Ravel.

Si incomincia con Le carnaval romain, pezzo che sembra fatto apposta per rompere il ghiaccio. Subito impegnato a dovere il corno inglese, Russel deLuna, ad esporre il tema che poi viene ripreso a canone dall'orchestra:

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Brillante la sonorità dei californiani, che Tilson Thomas ha lasciato qui a briglia sciolta, nulla risparmiando ad enfasi e fracasso.

Passiamo a sonorità assai più intime e raccolte (e con l'orchestra stessa assai smagrita) con Les nuits d'été, dove l'indisposta Susan Graham è rimpiazzata da Sasha Cooke, che peraltro ha cantato queste canzoni qualche settimana fa proprio con lo stesso Direttore.

Come la Fantastica fu scritta da un Berlioz letteralmente ossessionato dalla sua infatuazione per Harriett Smithson, così questo ciclo di poesie di Gautier fu composto da un Berlioz disilluso dal matrimonio con l'ormai declinante ed alcolizzata attrice albionica. Una delle canzoni (Absence) fu dedicata dall'autore a Marie Martin (in arte Marie Recio) un mezzosoprano di non eccelse qualità canore, ma dotata evidentemente di altre più carnali prerogative, tanto da divenire dapprima amante e in seguito seconda moglie del musicista. Il ciclo fu originariamente scritto per voce di mezzosoprano o tenore, con accompagnamento di pianoforte. Poi Berlioz fu convinto a produrre una versione con accompagnamento orchestrale e per l'occasione apportò anche alcune variazioni alle partiture e all'indicazione delle voci, il che lo indusse a trasporre la tonalità di un paio di canzoni, per adattarla alle caratteristiche dei cantanti – da lui conosciuti in Germania - ai quali venivano dedicate.

Villanelle (in LA maggiore) dedicata alla signorina Wolf, cantante del Granducato di Weimar:




L'attesa e l'arrivo della primavera per due innamorati. Et dis-moi de ta voix si douce: Toujours!

Le spectre de la rose (in SI maggiore, trasposto dall'originale in RE maggiore) dedicata alla signorina Falconi, cantante del Granducato di Gotha:




Mon destin fut digne d'envie, et pour avoir un sort si beau plus d'un aurait donné sa vie; car sur ton sein j'ai mon tombeau. E chi non vorrebbe essere al posto di quella rosa?

Sur les lagunes (in FA minore, trasposto dall'originale SOL minore) dedicato al signor Milde, cantante del Granducato di Weimar:




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Lamento per la morte dell'amata. Ah! sans amour s'en aller sur la mer!

Absence (in FA# maggiore) dedicato alla signora Nottès, cantante della cappella reale di Hannover:





Senza l'amore, la vita non ha senso. Comme une fleur loin du soleil, la fleur de ma vie est fermée, loin de ton sourire vermeil!

Au cimitière (in RE maggiore) dedicato al signor Caspari, cantante del Granducato di Weimar:





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Una colomba canta sopra un tasso, vicino alla tomba dell'amata. E la sua anima sembra piangere all'unisono con quel canto. Cosa insopportabile, per l'amato: Oh! jamais plus près de la tombe, je n'irai, quand descend le soir.

L' île inconnue (in FA maggiore) dedicato alla signora Milde, cantante del Granducato di Weimar:



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Nel Baltico, Pacifico, Giava, Norvegia, mia bella giovane, dove vuoi andare? La voile enfle son aile, la brise va souffler. Portami, dice la bella, à la rive fidèle où l'on aime toujours! Già, ma si tratta purtroppo di un'isola sconosciuta!

Anche se non presentano difficoltà insormontabili (si tocca un paio di volte il SOL) cantare questi brani - scritti per voci così diverse - da un solo interprete non dev'essere per nulla facile: la Cooke ci rimedia, per così dire, un'ampia sufficienza, mostrando una voce non potentissima, ma calda e bene impostata. Caloroso successo per lei, più volte richiamata al proscenio a ricevere applausi.

Nella seconda parte del concerto si fa un salto di 60 anni, per approdare a Maurice Ravel. Dapprima con i Valses nobles et sentimentales, scritti originariamente per pianoforte e successivamente orchestrati (e prodotti come balletto, per il quale Ravel trovò un soggetto più che decadente e un nome: Adélaïde ou le langage des fleurs). Siamo nel primo novecento, travagliato quanto si vuole, ma il walzer che arriva da Vienna (Johann Strauss e, molto prima, Schubert, dal quale viene direttamente il titolo di Ravel) continua a tener banco e ad ispirare i più disparati compositori: dal Mahler esistenziale, che lo stravolge nei suoi scherzi, al godereccio Strauss (Richard) che ci costruisce attorno il Rosenkavalier. Ravel, da buon esteta francese, sembra quasi mettersi in cattedra per sentenziare: ecco qua l'esprit de finesse di questa danza tanto popolare. Sulla prima pagina della partitura riporta una frase di Henri de Régnier, intellettuale e poeta per cui aveva grande ammirazione e di cui citò spesso versi e aforismi: il piacere delizioso e sempre nuovo di un'occupazione inutile. E qualche anno più tardi ci metterà il definitivo sigillo, con La valse.

Gli otto brani di cui si compone l'opera (certo l'ispiratore Schubert era stato assai più prolifico, con i suoi 34+12 walzer delle opus 50 e 77…) hanno una grande unità stilistica ed anche un ristretto campo tonale, con poche escursioni dal prevalente SOL. Vi si sentono chiaramente anticipazioni de La valse (che del resto Ravel aveva cominciato a concepire già da tempo). Qui una interessante registrazione di uno dei massimi interpreti raveliani: Charles Munch (parte1, parte2).

I primi sette brani (ad eccezione del 4 e 6) sono in tempi moderati o lenti. L'ultimo walzer, che fa da epilogo, presenta ripetuti cambi di tempo e agogica; e finisce proprio en se perdant, con archi e celesta ad esalare un accordo sulla dominante di SOL maggiore, appena appena increspato dai LA di celesta, violini secondi e viole. Bravi i professori della SanFrancisco Symphony a rendere efficacemente l'atmosfera raffinatissima e un po' crepuscolare di questa composizione.

Chiude la serata la seconda suite di Daphnis et Cloé, praticamente coeva dei Valses. Incorpora tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto, per una durata di poco più di 15 minuti (contro i 60 della partitura completa). Comprensibilmente, Tilson Thomas non si è portato dietro il coro, ma Ravel stesso ne prevede la sostituzione con parti dell'orchestra.

Il Lever du jour impegna strumentini, arpe e celesta (cui si aggiungono poi i primi violini) in un continuo ondeggiare di biscrome (le arpe anche di semibiscrome) che creano proprio la sensazione della rugiada che scende sulle rocce, con l'ottavino di Catherine Payne e poi il flauto di Tim Day che letteralmente cinguettano, all'albeggiare, mentre gli archi introducono l'ampia melodia che fa da sfondo all'esplodere del giorno (Daphnis sta dormendo). Ancora l'ottavino che annuncia il passaggio di un gregge e il clarinetto piccolo di Luis Baez che sottolinea l'arrivo del pastore, poi – quando c'è – interviene il coro a risvegliare Daphnis. La Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.

Grande successo per Tilson Thomas e i suoi, che regalano uno sfolgorante bis di commiato, poi il Direttore fa un significativo gesto (grazie, ma ora devo proprio andare a nanna) e ci saluta.

Due note sull'Orchestra, che compie tra poco 100 anni. La prima, di colore (smile!): mentre fra gli orchestrali si vedono numerose facce dagli inconfondibili tratti orientali, non c'è un solo componente di colore (a meno che non fossero tutti in ferie…) La seconda, di natura organizzativa: nell'elenco dei componenti dell'orchestra, accanto ad alcuni nomi è indicato quello del donatore della chair (in pratica: chi finanzia quella posizione in orchestra). Oggi sono 33, più del 25% dell'intero organico. È un segno della sensibilità che il pubblico americano (individui e aziende) ha per la cultura musicale: francamente, un esempio da seguire.

14 settembre, 2010

Conoscere Mahler con l’OrchestraVerdi

Lodevole iniziativa de laVerdi, in concomitanza con l'imminente programmazione delle sinfonie di Mahler (ottava esclusa, ma incluso Das Lied von der Erde): in occasione di ciascun concerto (turno A, del giovedi) l'Auditorium ospiterà una conferenza di approfondimento e analisi della sinfonia in programma.

Questa sera si è tenuta la presentazione dell'iniziativa, con l'intervento del prof. Quirino Principe (una vera autorità in materia, che sarà anche protagonista di alcune delle serate monografiche) e di Cesare Fertonani, docente all'Università Statale di Milano.

Principe ha sottolineato come l'attualità di Mahler contrasti con la profonda crisi (in Italia) della cultura musicale, di cui la scuola e gli organi di diffusione (radio-tv) sono ampiamente responsabili.

Ha individuato le radici della musica di Mahler nel profondo del romanticismo tedesco: da Schumann, in primo luogo, ma poi giù fino a Schubert e Weber. Ma anche la grande influenza di Verdi (Aida, Otello) sulle sue composizioni. E infine l'importanza del Lied, che è anche la chiave di volta per comprendere le Sinfonie del boemo.

Primo appuntamento giovedi 23, per la colossale Terza Sinfonia.

13 settembre, 2010

Salonen con la Philharmonia al MiTo

Fra un Tristan e l'altro, la venerabile Philharmonia di Salonen ha trovato un po' di tempo da dedicare al MI-TO, ieri sera al Conservatorio. Sala Verdi praticamente al completo, fino all'ultima fila su, a 30metri di quota, per un appuntamento davvero importante: non capita – ahinoi – tutti i giorni di ospitare qui orchestre e direttori di tal calibro.

Programma corposo, traversante l'Europa da est a ovest, dalla Russia alla Francia, passando per l'Ungheria. E con sotterranei legami fra le tre opere, tutte in qualche modo caratterizzate da scenari diabolici, onirici, o macabri.

La serata si apre con Musorgski e la sua Una notte sul Monte Calvo (anzi, più precisamente: La Notte di SanGiovanni sul Monte Calvo). Come molte composizioni di Musorgski, anche questa ebbe una storia assai intricata: concepita come musica per opera, poi trasformata in poema sinfonico, quindi ancora impiegata in altre opere mai arrivate a compimento e soprattutto – nel bene e nel male – oggetto di attenzioni da parte di altri musicisti, Rimsky-Korsakov in-primis. E proprio la versione di quest'ultimo è quella di norma eseguita nei concerti (ad esempio qui da Maazel). Leopold Stokowski ne fece una personale edizione per il disneyano Fantasia, tagliuzzando un po' quella di Rimsky, cui giustappose l'Ave Maria di Schubert, tanto per strapparci qualche lacrima in più!

Salonen invece ci propone la versione originale del poema sinfonico di Musorgski (del 1867, ascoltabile qui da Abbado: parte1, parte2) assai raramente eseguita. A dispetto della spocchia che l'autore del Boris manifestava ad ogni piè sospinto nei confronti della musica occidentale, la composizione è debitrice a Berlioz (movimenti finali della Fantastica) e a Liszt (Totentanz). Si struttura in quattro sezioni: arrivo delle streghe e attesa di Satana; arrivo di Satana accolto dalle streghe; messa nera e lodi delle streghe a Satana; sabba. È di una rudezza davvero primitiva e selvaggia (qualcuno la chiama sarcasticamente incapacità ad orchestrare di Musorgski…) e quindi ha anche un finale a passo di carica, duro e privo di… campane e di ogni altro riferimento a cristiana redenzione: chiude, in RE maggiore, con una salita cromatica che descrive la pura e semplice sparizione degli spettri, che paiono proprio volatilizzarsi in un pof! sul pizzicato sforzato degli archi.








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Rimsky invece, producendo la sua versione (nel 1886) si basò in realtà sulla musica – solo parente di quella del poema sinfonico – che Musorgski aveva predisposto nel 1880 per la scena della visione onirica del contadinello, inserita senza troppa razionalità in un'opera (La Fiera di Sorochyntsi) rimasta incompiuta. Lì nel sogno il ragazzo vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba, però – a differenza del poema sinfonico - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare del giorno e dai rintocchi di una campana. Ecco perché la versione di Rimsky – fra l'altro assai più stringata e magistralmente strutturata (bisogna riconoscerlo) rispetto al poema sinfonico originale - termina proprio con la dolce melodia del clarinetto, poi del flauto, i rintocchi della campana, e gli arpeggi in RE maggiore dell'arpa:











Non fosse che si rischierebbe di annoiare qualche spettatore schifiltoso, sarebbe interessante programmare, l'una dietro l'altra, le due versioni di questo brano, che sono tutte di grande effetto. Chissà se qualche direttore si permetterà mai una simile audacia…

In ogni caso questa esecuzione ci dà subito l'idea della potenza di fuoco dell'orchestra londinese – oggi 65enne - compattissima nella sezione archi e impeccabile davvero nei fiati e nelle percussioni.

Segue la suite da Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, chè il magiaro csodálatos – così risulta - ha entrambi i significati) di Bartòk. A differenza di quanto avviene di solito (le suites condensano i momenti più sinfonicamente interessanti dell'opera dalla quale derivano) qui Bartòk si è limitato ad accorciare l'integrale della pantomima, chiudendo dopo l'episodio della caccia del Mandarino alla ragazza, quindi con una scena mossa e di grande effetto (l'integrale chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba).

La partitura abbonda di trovate (per gli esecutori: incubi) di tutti i generi e i professori della Philharmonia hanno quindi di che superarsi. In particolare il clarinetto di mr. Robson – che sottolinea le moine adescanti della ragazza - e gli ottoni spiccano per le loro maiuscole prestazioni.

Infine il pezzo forte della serata: la Sinfonia fantastica di Berlioz. Una di quelle opere che sono nei programmi da solo 180 anni, eppure ancora e sempre sono un piacere ad ascoltarsi. E senza che una sola nota venga cambiata, o l'orchestrazione manipolata, in modo da renderla più vicina alla nostra moderna sensibilità.

Sempre emozionante l'incipit, con le terzine di strumentini e corni ad introdurre il recitativo degli archi, che poi attaccano – in punta d'arco - quelle 11 misure che Berlioz definisce di un'estrema difficoltà, raccomandando al Direttore di farle provare più e più volte, prima separatamente ai violini primi e secondi, poi insieme ai fiati. Raccomandazione che Salonen e i suoi devono aver evidentemente seguito con scrupolo. Niente ritornello (tanto si avrà modo di riascoltare a josa l'idée fixe…) e chiusa del movimento proprio come prescrive Berlioz: religiosamente!

Nella successiva valse si mettono in luce anche le due arpe (mrs. Pierce e mr. Webb) che sono qui solo per questo movimento, e vengono quindi disposte in bella vista, proprio sul proscenio, a sinistra.

Grande prestazione della signora Crowther al corno inglese e di mr. Hunt all'oboe nel desolato dialogo che apre la Scène aux Champs, tanto lunga quanto ispirata – stupefacente poi l'apparizione dell'idée fixe – che si chiude con i sordi tuoni provenienti dai quattro esecutori al timpano.

Domanda: visto che gli ultimi due tempi della sinfonia descrivono le vicende di un artista incompreso che si è dato all'oppio per dimenticare i suoi tristi casi, devono anche gli esecutori essere – come minimo – in preda ai fumi dell'alcol, per interpretarli al meglio? Certo in Albione con whisky e simili non vanno per il sottile (e credo nemmeno in Finlandia con la vodka…) ma devo dire che nell'interpretazione di Salonen e dei suoi c'era proprio tutta la carica di adrenalina che ti dà un buon cicchetto, magari di grappa nostrana! Nella Marche sono gli ottoni a farla da padroni, incluse le due tube, che oggi rimpiazzano gli oficleidi di Berlioz. Ma il fracasso che Salonen ottiene è sempre così pulito da non offendere mai l'orecchio.

Senza interruzione si attacca il conclusivo Sabbat, dove la signora McLaren (un nome, un programma!) al clarinetto piccolo in MIb si distingue in quell'esposizione a mo' di sberleffo dell'idée fixe. Poi ancora gli ottoni alla grande nel Dies irae prima del vorticoso finale chiuso dalle otto martellanti terzine di tutta l'orchestra (in cui i fagotti e la prima tuba debbono però arpeggiare!) e dall'accordo perfetto di DO maggiore.

Inutile dire del delirio suscitato nel pubblico, che non finisce mai di applaudire e invocare selvaggiamente Salonen e i professori, chiamati quasi uno ad uno. E loro ricambiano concedendo non uno, ma due bis: la Valse triste, evidentemente in omaggio al Direttore, e uno sconvolgente preludio all'atto III del Lohengrin.

10 settembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 1

Ieri sera l'Auditorium di Largo Mahler ha ospitato il primo concerto della stagione. Presentato come un omaggio a Shakespeare per via dei tre brani assortiti - incentrati su Romeo e Giulietta - in realtà ha avuto il suo cardine nel concerto di Prokofiev, il vero pezzo forte della serata.

Che è iniziata con la breve (163 battute in tutto, in RE maggiore) ouverture belliniana dei Capuleti (opera per nulla risalente al genio di Stratford-upon-Avon, peraltro, ma a fonti squisitamente italiane); un'ouverture che non ha certo la complessa strutturazione di quella della Norma, per dire. Forse scritta in tutta fretta, come l'intera opera, del resto, che ha mutuato assai dall'infelice Zaira. Qui serve a scaldare i motori all'orchestra, in vista del clou della serata.

Che arriva con il trentenne Alexander Kobrin, alle prese con il celebre e difficile Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Sergei Prokofiev. Su youtube si può ascoltare una registrazione del concerto interpretato dal suo autore, a Londra nel 1932 (primo, secondo, terzo tempo).

Il primo movimento è caratterizzato dall'esposizione di due temi, ciascuno dei quali, proposto rispettivamente da clarinetto e oboe, viene poi ripreso in forma variata dal pianoforte. L'esposizione si chiude con una sezione basata su un motivo discendente (con incipit di metro ditrocheo):

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Arriva ora lo sviluppo, basato inizialmente sulla manipolazione del primo tema e del motivo della chiusa, poi da quella del secondo tema. Una coda tutta in semicrome chiude il movimento, con due pesanti accordi in fortissimo, sul DO.

Il secondo movimento è un tema – che ha una qualche vaga reminiscenza di quello iniziale del primo movimento – seguito da cinque variazioni, più la ripresa del tema a chiudere il tutto.









Inizia in MI minore, quasi come una rozza marcia funebre (o magari come la camminata ciondolante di un ubriaco); ha quindi un che di mahleriano, come confermano i tre incisi del fagotto (ricordano la scala ascendente che apre il secondo movimento della nona) che si intromette nella duplice esposizione del tema da parte di flauto e clarinetto. La prima variazione è in carico al pianoforte che, come dire, cerca di tirar un po' su il morale, introducendo qualche sfumatura di maggiore, ma poi ancora flauto e clarinetto ci riportano all'atmosfera greve del tema, col pianoforte ridotto a fare da sottofondo con un tremolo di biscrome. Ora però si passa in Allegro, per la seconda variazione, introdotta da velocissime quartine in semicroma del pianoforte, col sottofondo delle crome dei corni e delle semicrome dei violini secondi, che suonano dei tritoni (SI-FA) e con la tromba che espone il tema, sul DO#, quasi uno sberleffo. La cosa si ripete due volte, prima che i fagotti e gli archi bassi vi mettano fine, con una scala discendente (al MI) in staccato e pizzicato, rispettivamente. La terza variazione ha come protagonista il pianoforte, che disintegra letteralmente il tema e – qualcuno ha scritto – sembra una pallina che rimbalza vorticosamente sulle pareti di un campo di squash. Due tetri accordi dei fiati paiono proprio sotterrarla! Ecco ora l'Andante meditativo della quarta variazione, protagonista l'incipit del tema, proposto dal pianoforte, poi dai corni, quindi dall'oboe, ancora dai corni, in un'atmosfera rarefatta, caratterizzata dalle liquide crome del pianoforte e da un delicato intervento del clarinetto. Nella quinta variazione (Allegro giusto) è ancora il pianoforte a farla da padrone, con una specie di moto perpetuo accompagnato in modo martellante dall'orchestra. Il tutto sfocia nella riesposizione del tema, ma a valori doppi, dapprima nel flauto, poi nel clarinetto. Ricompaiono ancora le scale ascendenti del fagotto, mentre il pianoforte percorre un moto oscillante per crome puntate, fino a chiudere sul MI.

Il movimento conclusivo, in forma di rondò e in tempo ternario, Allegro ma non troppo, è aperto dai fagotti (raddoppiati dal pizzicato degli archi) che propongono il tema iniziale:




Il pianoforte e poi l'orchestra ne riprendono via via degli incisi, poi sono gli oboi a riproporlo in modo completo, prima che pianoforte e violini espongano il secondo tema:








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Pianoforte, archi e strumentini sembrano rincorrersi con veloci quartine e sestine di semicroma, finchè il pianoforte, secondo i canoni del rondò, ripropone il primo tema (Poco più mosso) sviluppandolo ulteriormente con frequenti battute in fortissimo, per arrivare poi ad una sezione (Meno mosso) in cui vengono presentati due nuovi motivi, il primo, di carattere elegìaco, da oboi e clarinetti, il secondo – in 4/4 più nervoso, con improvvisi scatti verso l'alto – dal pianoforte, poi seguito dagli strumentini:








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Questa sezione continua (tornando a 3/4 e contrappuntando i due motivi) con il pianoforte protagonista, fino alla ripresa, in Allegro, del primo tema, in clarinetti e fagotti, seguiti poi dal pianoforte, dove il solista è chiamato ad eseguire virtuosistici passaggi con note clusterizzate, come questo:

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Si arriva quindi alla coda, con un forsennato rincorrersi fra solista ed orchestra:








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che porta allo schianto finale sulla triade di DO maggiore, che è però un DO vagamente… inquinato (sennò non si era originali!) dai SI di secondi violini, corni e secondo oboe, e dai RE della seconda fila dei violini primi, del primo oboe e del primo clarinetto.

Prestazione di tutto rilievo di Kobrin, uno che – a differenza di altri asiatici (smile!) – pare una statua che muove solo dita e piante dei piedi, tanto è composto e concentrato sulla tastiera. Grandi applausi e chiamate, che lo convincono ad offrire un primo bis (Schumann?) e poi un secondo (il brevissimo tema del settimo Preludio dell'op.28 di Chopin) che è un modo simpatico per salutare tutti.

Nella seconda parte del concerto ecco la scena d'amore della sinfonia drammatica op.17 di Berlioz. È la terza, delle sette parti che costituiscono Roméo et Juliette, che nel suo insieme prevede anche l'intervento di solisti di canto e del coro (non è un'opera, né una cantata, ma una sinfonia con cori, scrive Berlioz nella prefazione). E in effetti il coro – i Capuleti che lasciano la festa - ci sarebbe anche al principio di questa parte (123 battute in Allegretto) ma qui viene omesso per comprensibili ragioni, per cui si comincia con l'Adagio (Giulietta al balcone) che è una lunga preparazione degli archi, con rari interventi dei fiati, alla presentazione del tema di Romeo, il love-theme, come si usa dire, inizialmente esposto dal 4° corno e dai primi violoncelli:


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Poi è tutto un ritornare su questo tema, con variazioni (piccole o grandi) di struttura, di tempo e di volume del suono, insomma, tutte le possibili (kamasutriche…) forme e posizioni che può assumere il rapporto fra due innamorati. Non per nulla tale Wagner – autore del Tristan – riconobbe pubblicamente i meriti del Berlioz autore del Roméo.

Chissà che la buona prova in questo assaggio non porti la direzione musicale a mettere in programma l'intera sinfonia in un prossimo futuro: se lo meritano sia l'opera che... il pubblico!

Chiude il concerto l'ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Ciajkovski, già presentata – con Grazioli sul podio - nella scorsa stagione. Qui, a differenza dell'intimistico Berlioz, abbiamo lo scatenamento delle passioni (= percussioni: grancassa, piatti, oltre agli interventi tempestosi dei timpani). Zhang ne cava un'esecuzione trascinante, accolta da interminabili applausi e ripetute chiamate.

Next week un solenne ed enigmatico Elgar, seguito dal più allucinato dei Rachmaninov.

08 settembre, 2010

Un festival in Brianza

A Besana Brianza si prepara la quarta edizione di Musarte, che avrà luogo dal 25 settembre al 5 novembre 2010. Il tema di questa edizione è il crogiolo culturale che – a cavallo fra il XIX e il XX secolo – caratterizzò l'Europa e naturalmente l'Italia. Una delle figure principali della cultura di quel periodo fu Giacomo Puccini, che è al centro di questa edizione del festival.

Domenica 26 settembre, ore 11, nella Chiesa Parrocchiale San Vito Martire – Barzanò si eseguirà la Messa a quattro voci, detta anche Messa di Gloria, composta da un Puccini 20-22enne, e che ha fornito al compositore spunti impiegati in più di un'opera.

Ma l'intero programma è assai ricco ed interessante, a tutto merito della Città di Besana.

07 settembre, 2010

Il MiTo (?) di Lang Lang

Palasharp zeppo come un uovo per ascoltare (ma forse più ancora per vedere?) Lang Lang. Come (quasi) tutto ciò che arriva oggi dalla Cina, è all'apparenza uguale o meglio dei prodotti nostrani, ma non sai mai se si tratti appunto solo di apparenza o anche di sostanza. Ecco, Lang Lang ti cattura immediatamente l'occhio… forse per distrarre l'orecchio? Tecnica eccelsa (qualche svirgolata si perdona a tutti) ma l'ispirazione non si dovrebbe trasmettere attraverso contorsioni del busto, reclinamenti del capo e chiusure di palpebre, bensì dal modo con cui si toccano i tasti e si premono i pedali. Dopodichè, in una specie di stadio, con pubblico da stadio / festa de l'Unità (pardon, festa democratica, come ricordavano le insegne PD anche dentro il palazzone) va bene tutto, come ci hanno insegnato a loro tempo i tre tenori. E uno stadio, più che un auditorium, è il posto giusto per simili fenomeni da baraccone (in queste immagini pubblicitarie il nostro assomiglia sempre più a Mac Ronay nella macchietta del pianista matto, quindi ha già un futuro anche come comico).

Il ventottenne cinese ha (bis)trattato da grande attore il Concerto per pianoforte più popolare al mondo. Tanto popolare che il pubblico è esploso in un fragoroso applauso dopo il primo movimento, permettendo così ai soliti ritardatari (con posti nelle prime file, quindi probabilmente pure a sbafo…) di percorrere gli 80 metri del parterre e accomodarsi per l'Andantino semplice.

Inutile dire del trionfo finale, con ripetute chiamate, l'intera provvista di un fioraio recata sul palco e la concessione di un bis perfettamente adatto alla circostanza: l'op.53 di Chopin.

Poi la serata – intervallo a luci spente e orchestrali sempre sul palco - prevedeva ancora un Ciajkovski serio (fin troppo) e un Direttore ancor più serio. Così abbiamo potuto ascoltare, dai Trepper Philarmoniker guidati da Bychkov, una Patetica più che dignitosa. Anch'essa tanto popolare da scatenare un applauso interminabile dopo i pesanti accordi di SOL maggiore che chiudono l'Allegro molto vivace. Insomma, per lo spettatore medio era finita così, alla grande… perché mai sorbirsi ancora 10 minuti di Adagio lamentoso? Ecco quindi decine di persone che – scavalcando i vicini di sedia - si avviano all'uscita (per correre a comprare il CD della Patetica, o per non perdere l'ultima salamella della festa democratica?) col povero Bychkov impietrito ad attendere che termini la gazzarra per poter terminare anche lui la sinfonia, cui teneva tanto.

06 settembre, 2010

La Verdi ha aperto la sua stagione alla Scala

Abbandonato il povero Rigoletto mantouano al suo triste destino (a proposito, le critiche che si leggono in giro sono su per giù del tipo: una vera schifezza, però grazie a mamma-RAI per averla fatta… poi ieri pomeriggio una delle mie disgraziatissime figlie ha sentenziato: ecco perché fanno 'sta stronzata, perché non c'è la Ventura con le partite!) si è tornati alla Scala, dove Xian Zhang ha diretto il concerto inaugurale della stagione 10-11 de laVerdi che, come avviene da qualche anno, è ospitato dal massimo teatro italiano. Un concerto con programma assai corposo, che anzi nella iniziale scaletta sembrava proprio di quelli dei tempi di Beethoven: Egmont, Fantasia e Nona Sinfonia! Poi l'Egmont è stato rimosso e il tutto è tornato a proporzioni quasi normali.

In un teatro quasi stracolmo Simone Pedroni, pianista in residence presso laVerdi, apre la serata con il lungo solistico Adagio in DO minore che introduce la Fantasia op.80. Poi arriva l'orchestra, con i bassi a supportare il pianoforte nella transizione a DO maggiore, dove il solista espone quello che sarà il tema cardine dell'opera, derivato da un lied giovanile, e che successivamente verrà ripreso da solisti e coro, quasi fosse un abbozzo miniaturizzato del futuro Inno alla gioia della nona:


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È per ora il flauto a presentarne una virtuosistica variazione, subito imitato dagli oboi e successivamente dai clarinetti, col fagotto a contrappuntarne le crome con veloci semicrome. Infine entrano tutte le prime parti degli archi a preparare la strada ad un Allegro molto, dove il solista e l'orchestra dialogano con continui botta-e-risposta. Il dialogo prosegue in Adagio in LA maggiore, fino all'ingresso del tempo di marcia, in FA maggiore, per una nuova esposizione variata del tema. Un Allegretto, ma non troppo introduce i solisti del coro e poi tutto il coro, che presentano, nel solare DO maggiore, l'inno alla fratellanza di Christoph Kuffner, una pagina breve ma efficace, da cui Beethoven coglierà più di uno spunto per musicare – anni e anni dopo – Schiller. Sarà pure perché il pezzo non è di impervia difficoltà, ma tutti se la cavano dignitosamente.

Ora la Nona, divenuta ormai un architrave del repertorio de laVerdi (anche quest'anno sarà protagonista del concerto di fine anno). Devo dire che la Zhang ha riportato le cose a posto, dopo il diversivo di Marshall della scorsa stagione, tuttavia è parso che l'orchestra fosse ancora colla mente alle recenti ferie: più di un'incertezza, mancanza di buon impasto, soprattutto nel secondo movimento e nel preludio del finale. Magari sulla prestazione non stratosferica ha pesato anche l'ambiente del Piermarini, sotto l'aspetto fisico (il palco è il doppio di quello di Largo Mahler) e sotto quello psicologico (ué, siamo nel più importante teatro del mondo, mica pizza&fichi). I solisti – tutti già ospiti in passato dei concerti dell'orchestra - han fatto il loro dovere, come il coro. Certo, arrivare in un posto che ancora profumava dei suoni della Gewandhaus non è facile per nessuno.

Comunque gran trionfo finale (perché bisogna pur sostenere le nostre squadre…) soprattutto per il coro di Erina Gambarini, e pubblico gratificato con due bis: l'Ave verum corpus e le ultime 90 battute della sinfonia.

Giovedì l'inizio della stagione in abbonamento, con variazioni sul tema Romeo&Giulietta ad incastonare il terzo concerto di Prokofiev.

03 settembre, 2010

Chailly a Rimini

Proveniente da Stuttgart e diretto a Milano per il MI-TO, Riccardo Chailly ha diretto i suoi fantastici di Lipsia nel Concerto inaugurale della Sagra Musicale Malatestiana n° 61, in una Rimini assai rinfrescata da una tramontana che vi insiste da giorni. Concerto tutto dedicato a Robert Schumann, stante la ricorrenza dei 200 anni dalla nascita.

Si sa che Schumann fu un grande campione, come teorico e come pratico, dell'innovazione – avendo peraltro grande rispetto delle tradizioni – e le tre opere eseguite qui a Rimini ne sono prova tangibile. In ciascuna di esse il compositore di Zwickau non manca di impiegare le forme classiche in modo assolutamente originale e personalissimo.

Kit Armstrong apre la serata sedendo al pianoforte per interpretare il fin troppo celebre Concerto in LA minore. Che non ci si stanca mai di ascoltare e che ci regala ogni volta grandi emozioni. Nato come una fantasia, il primo tempo del concerto fatica ad inquadrarsi negli schemi della forma-sonata, tanto è ricco di motivi, cambi di tonalità e tempo. Più tradizionali, per così dire, ma non privi di inventiva, i due movimenti (Intermezzo e Allegro-rondò) aggiunti da Schumann per completare l'opera, anche in omaggio a (e dietro le insistenze di) Clara.

Il californiano Armstrong è appena diciottenne, ma di anni ne dimostra 15, data la taglia minuscola e l'aspetto da fanciullo imberbe. Però già suona da dio, oltre che comporre ed essere pure un sapiente matematico (il che conferma la strettissima relazione esistente fra note e numeri): insomma, pare sia una specie di genio. Suona quasi sempre rivolto verso il direttore e con movenze tanto ispirate da sembrare (speriamo di no, di Lang Lang ne basta uno… smile!) artefatte. Tecnica davvero superlativa, la sua, forse non ancora coniugata a profondità di scavo delle partiture che divora, ma può sempre migliorare col tempo… Concerto tutto suonato, dall'orchestra, con taglio cameristico, quasi mai sopra il piano, e con il primo movimento francamente tenuto a velocità assai inferiore rispetto al metronomo di Schumann (84 minime). Successo caloroso, ma non proprio da delirio, e così, dopo un paio di uscite, il pubblico tace e quindi non merita alcun bis.

Il corno è considerato lo strumento romantico per antonomasia (celebre il suo richiamo posto al principio dell'ouverture weberiana dell'Oberon). Schumann ci ha composto il trascinante Konzertstück, addirittura per 4 corni e Orchestra: era, il suo, un modo di rendere omaggio all'innovazione tecnologica, che in quegli anni aveva portato allo sviluppo dello strumento a valvole (il ventil-horn) che stava rimpiazzando quello naturale. Già la prima pagina della partitura ci dice tutto:






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A dispetto del titolo abbastanza minimizzante (pezzo da concerto) la struttura è tutto sommato quella del concerto classico, con i canonici tre movimenti: il primo Vivace, FA maggiore, in forma-sonata liberamente interpretata, con sezione mediana nella dominante DO; l'intermedio sotto forma di Romanza, piuttosto lento, in RE minore, con un corale in SIb che ritorna (in MI) nel mezzo del Finale, assai vivo, ancora in FA. Si sentono atmosfere, per così dire, renane, che torneranno di lì a non molto nella terza sinfonia. Inutile dire che i solisti sono chiamati a notevoli virtuosismi, con frequenti escursioni nella zona acutissima (fino al LA, per il primo corno). Davvero strabiliante l'esecuzione dei quattro professori della Gewandhaus, accolta da meritatissimi applausi.

Infine la Prima Sinfonia in SIb maggiore, soprannominata Frühling (Primavera). Nick-name più o meno appropriato (potrebbe anche essere il più abusato pastorale…) anche se in qualche modo autorizzato dall'autore. Questa sinfonia è esempio lampante del fervore innovativo di Schumann: a fronte di un modello quasi Haydn-iano (basti considerare l'introduzione lenta – Andante un poco maestoso - all'iniziale Allegro molto vivace) l'opera mostra chiare caratteristiche di teatralità (anche se nulla la lascia assimilare ad un poema sinfonico) rappresentate dalla presenza di una serie di mutamenti repentini di tempo e dall'esposizione di incisi e motivi, se non di veri e propri temi, alieni rispetto alla struttura della sinfonia classica (neanche Mendelssohn e Brahms si prenderanno tante libertà con le forme tradizionali). Un'osservazione viene qui spontanea: si dice che Mahler (con un'operazione speculare a quella di Wagner) abbia portato l'opera nella sinfonia; ecco, forse il boemo trovò ispirazione per questo suo atteggiamento estetico proprio in Schumann, che non a caso fu uno dei suoi compositori più amati (anche fin troppo, come testimoniano i suoi ritocchi all'orchestrazione delle sinfonie del grande Robert, inclusa proprio questa presentata qui da Chailly).

Qualche nota sul contenuto.

Stentoreo l'attacco di trombe e corni in unisono a presentare la fanfara che, in tempo lento, anticipa il caratteristico ritmo dell'incipit giambico del primo tema, subito seguita da una vertiginosa salita e successiva scala discendente dal LA verso l'accordo di RE minore. L'introduzione contiene diverse modulazioni e poi, prima del crescendo che porta all'esposizione, una scala discendente di RE maggiore nei flauti (poi accompagnati dagli oboi) ci ricorda da vicino certi preludi ad arie o cavatine di Rossini o del primo Verdi. L'esposizione rispetta abbastanza i canoni della forma-sonata, con il primo tema in SIb e il secondo nella dominante FA, con tanto di ritornello. Però ci sono passaggi interessanti, come la ripetizione del primo tema sulla sottodominante (MIb), diverse modulazioni (ad esempio sul REb) e il secondo tema che arriva al FA dopo alcune peregrinazioni sul LA e il DO. Lo sviluppo mostra pure evidenti innovazioni: al primo tema trattato con sapienti variazioni si affiancano, in luogo del secondo, nuovi motivi e poi quello dell'introduzione, la fanfara degli ottoni, enfaticamente ampliata e chiusa in RE minore. La ripresa, con il ritorno canonico del secondo tema nella tonalità di impianto (SIb) sfocia in una coda (Animato, poco a poco stringendo) dove il primo tema viene interrotto da un diminuendo – ancora un effetto teatrale – che introduce un nuovo motivo esposto dagli archi e poi dai fiati, concluso con una scala ascendente del flauto, quasi speculare a quella dell'introduzione. Si riaccelera poi, con una fanfara di corni e trombe sostenuti dai fagotti (di cui Brahms si ricorderà nel chiudere la sua seconda – altra sinfonia pastorale) che porta ai secchi accordi della cadenza conclusiva.

Il Larghetto in MIb è forse il movimento più vicino ai tradizionali canoni della forma sinfonica, ma non vi mancano la sorprese. Schumann presenta subito l'unico tema principale, esposto dai violini, il cui incipit anticipa un poco nell'atmosfera quello dell'Adagio cantabile in LA maggiore della Sinfonia scozzese, che Mendelssohn comporrà di lì a poco. Dopo un paio di cadenze, caratterizzate da discese dal quinto al primo grado, è sempre lo stesso tema a tornare, nella dominante di SIb, nella sezione mediana, più mossa e culminante in SOL maggiore, dopodiché i corni riprendono nuovamente il tema nella tonalità di impianto, affiancati subito dagli strumentini. Nella cadenza finale i tromboni anticipano l'incipit del tema del successivo scherzo, prima che il tutto degradi, in pianissimo, di un semitono, chiudendo sul RE (maggiore) di archi e flauti.

RE (minore) che è la tonalità dello Scherzo (3/4) ma l'attacco (salita dal RE) è in SOL, proprio come quello della quinta dell'amatissimo Schubert, che a sua volta si era rifatto al Mozart della K540 (che filiera di civiltà musicale!) Questo movimento è di un'audacia formale davvero incredibile. Dopo l'esposizione del secondo tema, formato da un motivo che – come quello del primo tema - di sdoppia sulle relative SIb e FA maggiore, e il ritorno del primo, ecco un primo Trio (2/4 in RE maggiore, più vivace) che ha un metro anfibraco (semiminima-minima-semiminima) che ricorda chiaramente quello del tema principale dell'Allegro iniziale. Vi compare (ripetuto due volte) un danzante motivo discendente in SIb, che porta ad una teatrale corona puntata sul DO (sottodominante di SOL) con perentorio rullo di timpani; da lì riprende il motivo iniziale del trio, che sfocia in una fanfara di squillanti anapesti di RE maggiore in corni e trombe. Torna lo scherzo, con la riesposizione dei due temi, che porta ad un secondo Trio (dove il tempo - 3/4 - non cambia) costituito da tre sezioni (le prime due ripetute): nella prima gli archi, a canone, espongono un motivo ascendente che scala ben 3 ottave della dominante FA; la seconda è caratterizzata da scale discendenti, a partire dalla tonica SIb, ed ascendenti sulla scala di DO minore, chiuse da una sospensione sulla sopratonica; la terza imita la precedente, portando però a chiudere il trio sul SIb. Ritorna il primo tema dello scherzo, che invece di chiudere con forza, contraddice tutti i sacri dettami, introducendo l'incredibile Coda, costituita dal secondo tema che ora, passando dal SOL, si presenta in RE maggiore, con un diminuendo che lascia tutto sospeso sulla sopratonica MI. Qui una lunga pausa porta alla stupefacente cadenza finale (in 2/4) che dapprima richiama il metro del primo trio e poi, con due successivi gruppetti in quintina di oboi e flauti-clarinetti, si appoggia sull'accordo di SOL maggiore; dal cui SI un Quasi presto, che parte in mezzo-forte, degrada cromaticamente di un'ottava per poi – dopo un unico tocco di timpano - appoggiarsi sul LA, in pianissimo. Corni, fagotti, clarinetti e flauti esalano l'ultimo accordo di RE maggiore.

Una velocissima scala ascendente, che culmina sulla dominante FA, apre il finale della sinfonia, Allegro animato e grazioso, liberamente in forma-sonata. Sono gli archi a presentare il primo tema, di crome (quasi) tutte puntate, in SIb, che si chiude con una serie di anapesti, lasciando spazio al secondo tema, sullo stesso metro, nella relativa SOL minore, subito reiterato in RE minore. Ora, introdotto da un frammento del primo, entra un terzo tema, nella dominante FA maggiore, chiuso da due poderosi arpeggi dei corni, che chiude l'esposizione, da ripetersi. Lo sviluppo, assai breve, presenta dapprima frammenti del terzo tema, fino ad una fanfara dei tromboni, in REb, da cui parte un recitativo dei contrabbassi, con gli altri archi in tremolo, che porta ad una sospensione (Poco adagio) sulla sensibile DO, negli oboi. Seguono tre arpeggi dei tromboni (il primo dal solo) FA-LA-DO, LA-DO-MIb e LA-DO-MIb-SOL, su cui il flauto solo esegue una teatrale cadenza che reintroduce il primo tema, riproposto interamente dall'orchestra. Il secondo tema ricompare nel clarinetto, seguito dagli archi, ora però in DO minore e subito reiterato in SOL minore. Il terzo tema torna ora, ma nella tonalità d'impianto (SIb) con i forti arpeggi dei corni e quindi (Poco a poco accelerando) ci si avvia alla coda, dove i tromboni tornano ancora in primo piano con due interventi grandiosi, prima della conclusiva cadenza di minime in staccato degli archi, che dalla mediante precipita fino alla tonica, due ottave più in basso, prima delle due vertiginose scale ascendenti che preparano gli accordi conclusivi.

Nessuno più dei professori della Gewandhaus ha dietro le spalle tanta tradizione interpretativa di questa sinfonia (come di tutto Schumann, del resto); tradizione instaurata da Felix Mendelssohn (figuriamoci!) che ne diresse la prima assoluta nel 1841. Ecco, Riccardo Chailly ne fa ampiamente tesoro e ci propina un'esecuzione davvero coinvolgente, dalla prima all'ultima battuta. Doveroso menzionare il bellissimo suono dell'orchestra (disposta in formazione alto-tedesca, con i secondi violini in prima fila e violoncelli e contrabbassi al centro-sinistra): proprio il suono tedesco, un poco oscuro negli archi e tagliente negli ottoni.

Trionfo annunciato per tutta la compagine, già pronta a traslocare alla Scala, per i due concerti del MI-TO.