ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

23 agosto, 2010

Il ROF-2010: Stabat Mater



Lo Stabat Mater ha chiuso ieri sera il ROF XXXI, un’edizione che forse non entrerà negli annali, ma di cui – dati i tempi – penso ci si possa accontentare.  

In un Teatro Rossini stracolmo e con il palcoscenico invaso dall’orda di musicanti, è toccato ancora a Michele Mariotti (profeta-in-patria, una volta tanto) di guidare i suoi bolognesi, i quattro solisti e il coro di Paolo Vero lungo i 10 numeri di questa straordinaria composizione del Rossini maturo, ormai auto-pensionatosi a Parigi. Dove si trovano tracce dell’intera civiltà musicale occidentale, dai fiamminghi a Bach, da Pergolesi a Mozart; e dove si prefigurano future e grandi tappe della medesima civiltà, dal Requiem di Brahms all’ipertrofico Stabat Mater di Dvorak, alla Messa di Verdi.

Un’occhiata alla disposizione degli esecutori: orchestra in layout moderno, ma con scambio di leggìi fra violoncelli e viole, portate in prima fila, a destra di Mariotti. Solisti in foreground, proprio sul proscenio. L’ambiente è ancora delimitato dalle scene del second’atto di Sigismondo, che ha chiuso sabato la sessione operistica del festival.  

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d’impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l’opera) cui si arriva dopo che violoncelli e fagotti hanno aperto con una scala ascendente di RE maggiore. L’introduzione, tutta in staccato e sincopi, che Mariotti attacca con gran cipiglio, ci porta nel clima mesto, ma agitato dello Stabat, intonato prima dal coro (bassi, poi tenori, soprani e contralti) a canone e poi dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente. Una breve sezione centrale è nella relativa SIb maggiore, dove è Antonino Siragusa a presentarsi in primo piano. Subito lo accompagnano le due soliste e poi il basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat. Rientra il coro, sul Juxta crucem, scandito su SOL ff ribattuto dell’orchestra, fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta al dolorosa, cantato sotto voce, e poi al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell’introduzione, negli archi, e i due perentori accordi di SOL minore.  

2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo, con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l’orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese. Pericolo che il bravo Mariotti scongiura alla grande, rispettando l’agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora a Siragusa esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi la sezione nella relativa FA minore, quindi la ripresa nella tonalità principale, e la coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l’impervia salita alla sottodominante, il REb acuto, sull’ultimo poenas incliti, che Siragusa stacca alla grande, senza apparire impiccato, come viceversa gli era capitato, per molto meno, nel Sigismondo. Efficacissimo poi Mariotti nell’esecuzione della stupefacente cadenza finale.

3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l’incipit largo e misterioso dei corni, in MI maggiore, e poi l’improvviso erompere della scala ascendente, che introduce nel Qui est homo Marina Rebeka (sarà una piacevole conferma, questa giovane lèttone) poi affiancata da Marianna Pizzolato (ancora zoppicante per i postumi dell’incidente di venerdi in Cenerentola) sul Qui non posset (Rossini prescrive in effetti un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal contralto, data l’estensione limitata al SOL#). Le due se la cavano egregiamente in questo brano assai virtuosistico, prima che i corni re-introducano la bellissima cadenza iniziale.

4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell’opera, e tocca a Mirco Palazzi di… impersonarlo. Si parte in LA minore, per poi modulare a maggiore (il procedimento si ripete due volte). Palazzi regge bene l’impegno, voce calda e mai forzata, salvo alla fine, quando peraltro bisogna passare sopra il fracasso orchestrale.

5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con una fugace modulazione alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora col basso. Qui Palazzi conferma le sue buone doti, a dispetto di una voce non proprio profonda, che qui fatica un poco a passare, nei toni gravi. Perfettamente a suo agio invece sui due FA di Fac ut ardeat cor meum.

6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore, soprano, basso e contralto entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sulla relativa FA minore e poi sul DO minore, all’ingresso del basso (Fac me vere) e del contralto. I quattro solisti fanno qui sfoggio di affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. 

7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta da un attacco, dolce, dei corni, che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata al soprano secondo, e quindi è la Pizzolato ad esibire grande cantabilità e portamento.     

8. Inflammatus et accensus. Mariotti toglie le briglie agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni, invero tracotanti, negli incisi discendenti, prima che la Rebeka stacchi il SOL forte, sul primo Inflammatus, per poi passare subito al sotto voce, ben eseguito, sul secondo. Arriva il coro (In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all’inizio della sezione nella relativa MIb maggiore, dove la Rebeka canta Fac me cruce custodiri, contrappuntata dal coro. Si torna a DO minore e poi, sul successivo Fac me, a DO maggiore, dove la solista lèttone stacca assai bene (senza urla sguaiate) i due consecutivi DO acuti, prima che tutta l’orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po’ come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). Davvero impressionante! Qui termina la fatica dei quattro solisti: da adesso padrone della scena sarà il coro.

9. Quando corpus. L’orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l’unico numero dell’opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. Si potrà discutere sulla scelta di affidarlo al coro e non ai solisti, ma uomini e donne di Paolo Vero mostrano di meritarsi alla grande questa preferenza e questo onore. Principia in SIb, per poi passare alla relativa SOL minore. Un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova i cantanti, che se la cavano a meraviglia.  

10. In sempiterna saecula, Amen. Il SOL minore – tonalità di base dello Stabat - torna a farla da padrone in questa colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest’opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora nell’Andantino moderato, per l’Amen. Prima che arrivi la strepitosa cadenza finale, degna in tutto e per tutto di accompagnare il sipario che cala su un melodrammone (nella fattispecie, il ROF XXXI).

In verità… il sipario non cala ancora, poiché il pubblico è in delirio: urla selvagge e battimani ritmati che costringono, più che convincere, Mariotti a concedere un bis, riproponendo l’ultimo travolgente numero, col coro che ancora si supera. Il maestro riceve anche un affettuoso omaggio dai suoi, che fanno tremare il tavolato del Rossini.


Ancora tutti in trionfo e poi, quasi controvoglia, ci si alza per guadagnare l’uscita, in questa tiepida serata di fine-festival.

4 commenti:

Gianluca ha detto...

Ieri ero in piazza e non a teatro, ma anche da lì si è colto l'impeto trascinante di questa mirabile esecuzione. Da appassionato ho ascoltato tante versioni dello Stabat, da quella storica di Giulini con la Ricciarelli e la Valentini Terrani alle varie riprese di Zedda, ma mai come questa volta ho colto lo spirito rossiniano. Un aspetto che mi piace sottolineare è quello dell'aderenza al meraviglioso testo, anche nelle sue pieghe più riposte soprattutto da parte del coro e dell'orchestra. Che dire della direzione? Michele sei stato sublime! IL Maestro mi perdoni la confidenza, ma è stato allievo della mia scuola e spesse volte mi è occorso di fornirgli dei libri della bibioteca. Vorrei infine spezzare una lancia a favore delle proiezioni in piazza che consentono ad un pubblico molto numeroso e che magari a teatro non andrebbe, di fruire dei capolavori del ROF! Si è colta una vera e propria emozione estetica in chi non è uso ascoltare questo genere musicale e questo credo che valga molto di più di mille discorsi teorici su come avvicinare il grande pubblico a certa musica.

daland ha detto...

@Gianluca
Che dire?
Grazie di aver contribuito a formare un ragazzo che è già diventato qualcuno, ma che sicuramente ci darà in futuro tante soddisfazioni estetiche, come ieri sera!

Ciò che si prova in un teatro o in un auditorium è sensazione che la moderna tecnologia ancora non riesce a riprodurre... ma siano benedette le iniziative che portano la musica a contatto con il vasto pubblico.

Grazie ancora.

Amfortas ha detto...

Credo che lo Stabat Mater sia davvero un banco di prova notevole per il direttore. Il tuo commento lusinghiero alla prestazione di Mariotti mi fa molto piacere, quando l'ho sentito io in campo operistico mi è sempre piaciuto.
Ciao Daland.

daland ha detto...

@Amfortas
Quest'anno, oltre che qui al ROF, ho visto Mariotti nel recente Barbiere alla Scala e in primavera nella Carmen a Bologna.
Devo dire che ho sempre avuto l'impressione di un direttore che studia molto e sa cavar fuori il meglio da orchestra e cantanti.
A presto!